In chiave slovena
Sulla scia di Necropoli (Fazi, 2008; cfr. «L’Indice”, 2008, n. 4), che ha dato all’autore la giusta notorietà, escono adesso i racconti scritti in un lungo arco di tempo, qui per la prima volta tradotti dallo sloveno o dall’autore riscritti in italiano (Fiori per un lebbroso e Una sosta sul Ponte vecchio). Si potrebbe dire che di Necropoli molti di questi racconti, prevalentemente autobiografici, siano lo sfondo e ne costituiscano in qualche modo l’antefatto. Nel libro maggiore Trieste e l’odio fascista antislavo erano temi già fortemente intrecciati: qui, talora fino all’eccesso, diventano causa scatenante, motivo ricorrente. La tessitura necessariamente ideologica, che sfocia in un autentico grido di dolore, qua e là appesantisce la scrittura: l’urlo di ogni minoranza calpestata, per quanto legittimo e civilissimo, è pur sempre un urlo, e perciò ogni tanto deborda (la violenza subita nell’infanzia è sempre la più dolorosa da tollerare).
Il racconto più bello, quello che dà il titolo al volume, è anche il testo dove, il fardello del diritto violato è meno opprimente, nonostante tutta la vicenda ruoti intorno all’incendio del Narodni dom, la Casa della cultura slovena bruciata il 13 luglio 1920 dalle camicie nere.
Le date sono importanti. Due anni prima i triestini, e insieme con loro gli sloveni della Venezia Giulia, erano diventati cittadini italiani: iniziava quel giorno una storia di tragedie, di violenze e di ferite che saranno solo in parte cicatrizzate alla fine del XX secolo.
A Trieste, ai luoghi dell’infanzia violata, in specie nel racconto Il naufragio, sono dedicate pagine di struggente bellezza, che tenderebbero all’elegia se non fossero trattenute dalla lezione dei fatti: ci si sofferma sulla mutevolezza delle stagioni, sulla popolazione variopinta dei bagnanti che riempiono i tram d’estate, ma la scontrosa grazia della città di Saba è qui declinata in chiave slovena. Inclusa la via del Monte o il Canale, Pahor non può dire “la mia città” alla stessa maniera di Saba: egli invoca giustizia per le vittime dimenticate della violenza fascista.
Manca naturalmente ogni venatura dannunziana. Pahor non è un nazionalista, non ha la stoffa dell’esclusivismo: ha molti legami con l’Illuminismo francese e la sua visione delle cose è quella del Cosmopolita che guarda all’Europa delle nazioni di cui sognava Denis de Rougemont. Guarda anche lui, è vero, come gli irredentisti triestini di inizio Novecento, alla Firenze vociana e umanista, come nel racconto Una sosta al Ponte vecchio. Alla patria delle lettere per antonomasia guarda con occhi non diversi da quelli di Scipio Slataper.
Ed è sorprendente osservare come il mito vociano-dantesco sopravviva nello scrittore, ma anche nel docente Pahor, quando porta in gita lungo le rive dell’Arno le sue alunne dell’istituto magistrale sloveno, imponendo loro la pagina del Convivio nella quale Dante “marchia a fuoco la vigliaccheria infame di colui che tradisce la lingua materna”.
A. Cavaglion – L’Indice – gennaio 2009
Boris Pahor IL ROGO NEL PORTO a cura diAnna Raffetto, pp. 224, euro 18, Zandonai, Rovereto 2008