Un pezzo di identità
Ci sono almeno due modi di indagare le «leggi razziali”. Il primo ricostruisce la storia della normativa e, conseguentemente, analizza l’iter dell’esclusione e della persecuzione, infine la storia del «rientro” e della normalizzazione. E’ un percorso che allude alle trasformazioni indotte da un evento. Un’indagine con cui storia generale e storia locale si incrociano, dove contano gli ambiti professionali, i quadri ambientali, la storia degli oggetti (sottratti, talvolta restituiti). Una vicenda che in Italia con molta lentezza è entrata nella coscienza pubblica.
Noi italiani ci siamo spesso raccontati la storia del soccorso e degli aiuti. Con riluttanza abbiamo aperto il capitolo della delazione, o anche del coinvolgimento attivo. Non sono le uniche reticenze. Altre riguardano anche il mondo ebraico italiano, non diverso da quello di tutti li italiani e dunque in gran parte convintamente fascista, aderente al regime, tanto che nell’ottobre 1938 non riesce a capacitarsi di “non essere più italiano”.
Anche per questo è parzialmente fuori luogo ragionare dell’antisemitismo fascista paragonandolo a quello nazista. A differenza della realtà tedesca, dove il nazismo è un partito e poi un regime dichiaratamente antisemita, il fascismo italiano lo fu dall’inizio solo in alcune sue componenti culturali e solo in alcune circostanze. L’antisemitismo e il razzismo non erano parte dichiarata del suo programma (in ogni caso lo erano compiutamente del movimento nazionalista). Una parte non indifferente di ebrei fu fascista e nessuno all’interno del Pnf, almeno fino al 1934, ebbe niente da dire sulla presenza ebraica nel partito.
Un altro modo di illustrare il contenuto delle “leggi razziali” consiste invece nella ricostruzione del codice culturale che caratterizza la società italiana nell’epoca delle leggi razziali, individuando parole, concetti, raffigurazioni. In questo caso il problema non è più la storia delle persecuzione, bensì tutto ciò che è appartenuto al linguaggio pubblico, individuale e collettivo. L’Italia delle leggi razziali, in questo secondo percorso, non è quella dell’esclusione, bensì quella della costruzione e della ridefinizione dell’idea di “italianità”. Un’idea che allude a un livello alto del sapere, costituito da discipline che hanno il corpo come oggetto di indagine (dalla biologia alla medicina, all’antropologia, all’etnologia, alla demografia, tra le altre), e a un livello “basso”, fatto di comunicazione, ovvero di costruzione di un I linguaggio sociale attraverso l’immagine in movimento, la canzone, ma anche il verso poetico, il disegno, il fumetto, lo slogan politico, il manuale scolastico, i dizionari.
Il libro di Cassata appartiene a questa seconda modalità di indagine, il suo scopo è quello di comprendere come si forma un linguaggio, quali forze intellettuali e quali discipline mette in campo; quale codice culturale contribuisce a formare e quanto di quel codice sia destinato a permanere anche oltre l’abolizione della legislazione razziale. Al centro, dunque, di questo libro non stanno le leggi razziali, bensì l’Italia delle leggi razziali. Cassata a questo scopo insegue vari itinerari, alcuni specifici e biografici, altri disciplinari (che cosa si intende con razzismo, quali discipline sono utilizzate, riformulate,, riscritte per costruire un impianto culturale e politico razzista coerente?), altri ancora inerenti alle tecniche della comunicazione.
Quelli biografici riguardano anzitutto Telesio Interlandi, ovvero il giornalista che fonda e dirige il quindicinale “La Difesa della Razza”. Un personaggio che non emerge improvvisamente nell’estate 1938, a ridosso della promulgazione delle leggi, ma che a lungo è stato uomo di fiducia di Mussolini, quando si trattava di anticipare mosse politiche, comunque sempre funzionali agli “strappi” del regime, tanto nella fase di costruzione a ridosso del delitto Matteotti, tanto nella scelta di rottura del quadro di Versailles dopo il 1933. In questo senso, Interlandi e anche “La Difesa della razza” non sono comprensibili se non come un segmento organico al duce. In questo modo la questione delle leggi razziali andrà dunque preliminarmente intesa.
Accanto a Interlandi, altre figure andranno comprese: per esempio l’etnologo Guido Landra, Lidio Cipriani, che soprattutto ha un ruolo nella costruzione della politica antimeticciato (avviata già a ridosso della campagna italo-etiopica), ma anche Julius Evola (già ampiamente indagato da Cassata nel suo A destra del Jarasmo, Bollati Boringhieri, 2003), a lungo collaboratore del periodico. Con Interlaudi condividono molti criteri culturali: l’antimassoneria, l’idea di una missione spirituale dell’Italia, la convinzione che il mondo ebraico sia un corpo estraneo all’italianità.
Sono tutti aspetti che nella polemica pubblica italiana non nascono negli anni trenta, ma hanno una lunga gestazione che riprende alcuni stereotipi letterari della narrativa popolare della seconda metà dell’Ottocento (da L’ebreo di Verona, di padre Antonio Bresciani, a Francesco Saverio Rondina e il suo Emigrante italiano, un lungo racconto pubblicato a puntate da “Civiltà cattolica» nel 1892) e che ritornano negli anni dieci, dapprima durante la campagna di Libia del 1911-1912, ma soprattutto iniziano, a partire dal 1915, a essere sistematicamente proposti dalla ti- vista “La vita Italiana”, in cui si impegna soprattutto l’economista Maffeo Pantaleoni, che costantemente interviene su questo tema fino alla morte (1924). È da ricordare che l’edizione italiana dei Protocolli dei Stivi Anziani di Sion è promossa nel 1921 da questa rivista e l’idea del censimento degli ebrei italiani è una suggestione di Pantaleoni al direttore della rivista Giovanni Preziosi, protagonista dell’antisemitismo italiano fin dentro la Rsi.
Nello stesso senso va la lettura del Mediterraneo come luogo dello scontro tra latinità e mondo barbarico. Un aspetto che riempirà la propaganda cinematografica e che ha il suo primo banco di prova nelle celebrazioni per «L’anno augusteo” (1937). Vi è infatti il culto della latinità come “primato di Roma”, cui tutti gli altri popoli devono sottomettersi e che nel momento del varo della legislazione razziale si concretizza nella lotta di Roma contro Cartagine (ovvero il mito del popolo guerriero, contadino, in opposizione al popolo commerciante, razzialmente inferiore). Un tema, questo, che va letto insieme alla ripresa dell’eugenica e allo sviluppo di un’ideologia demografica che, già annunciata con il discorso dell’Ascensione del maggio 1927, viene poi intrapresa con le politiche familiari e popolazioniste della prima metà degli anni trenta.
Il tema della difesa e del rafforzamento della famiglia, che immette alla questione della difesa della propria identità, della minaccia al proprio spazio, riempie la comunicazione iconografica del discorso razzi- sta: sia nelle copertine della “Difesa della razza” come nell’arte plastica, conie nella battaglia per l’italianità della musica. Un ambito, questo della musica, in cui si incontrano e si complicano altre ossessioni; il rifiuto o la diffidenza nei confronti della tecnica — che è la paura degli Stati Uniti — e il timore della decadenza, che nel linguaggio del fascismo significa soprattutto Francia. Il complesso di questi temi costituisce l’Italia delle leggi razziali. Che cosa significa? Studiare l’Italia delle leggi razziali implica pensare a una storia “di corta durata”, capace di contenere in. un tempo stretto tutti i dati strutturali e congiunturali che esprimono una società e ne individuano i dati profondi: le culture sociali, gli atteggiamenti dei gruppi economici, le culture e gli intellettuali, le periferie e i centri urbani, lo stile culturale dei media, le forme del linguaggio collettivo, gli apparati educativi e scolastici, le culture del tempo libero. In breve, ciò che in storiografia si chiama le “sensibilità”. Sono proprio quelle sensibilità a dare solidità a un evento: a radicarlo nel suo tempo e a farlo durare, anche oltre il suo tempo.
Non è vero che, se un fenomeno dura poco, poi non pesa sulla storia. Pesa. E si ripresenta, in forme nuove, come sempre capita nella storia, mai eguale al passato, ma non totalmente estraneo a esso.
Quando improvvisamente l’omogeneità sociale e culturale di un gruppo si infrange, e quindi quando quel gruppo teme di “perdere se stesso”, tra le risorse culturali che quel gruppo ha, c’è anche quel set di immagini, di parole, di metafore, di simboli che già hanno avuto corso nella propria storia, e a cui inevitabilmente esso ricorre. Quel passato esprime un pezzo dell’identità storica che non si è voluta discutere. Ciò non accade né fatalmente, né naturalmente, ma Perché con quel passato non si è avuto il coraggio, la forza e la chiarezza di confrontarsi. Era più facile assolversi.
David Bidussa – L’Indice – gennaio 2009
Francesca Cassata – “La difesa della razza” Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista (pp.415 euro 34, Einaudi, Torino 2008)