Differenze in campo
Domenica mattina ho avuto l’occasione di scoprire direttamente le attività della Jerusalem Foundation (www.jerusalemfoundation.org), scortato da una guida d’eccezione, l’ex ambasciatrice d’Israele in Italia, Tamar Millo. Dopo una visita all’asilo multiconfessionale dell’YMCA, di fronte all’albergo King David, ci siamo spostati a Gerusalemme Est, per visitare il campo di basket dove si allenano i bambini palestinesi che partecipano al progetto «Peace Players». Il programma funziona così: giovani palestinesi e giovani israeliani si allenano separatamente in due centri sportivi; una volta ogni due settimane si incontrano sul campo della scuola gestita dalla fondazione e imparano a conoscersi. Dopo aver rotto il ghiaccio e aver raggiunto un livello di gioco adeguato i ragazzi e le ragazze costituiscono un’unica squadra, che quest’anno si è iscritta per la prima volta al campionato di basket israeliano. Molti dei bambini palestinesi non hanno il passaporto israeliano, ma quello giordano, poiché le loro famiglie rifiutarono di cambiare nazionalità in seguito alla guerra dei sei giorni. Dopo aver fatto due tiri con i ragazzi e con i loro insegnanti, che hanno già sperimentato questo programma in altre aree conflittuali del mondo (Irlanda del nord, Cipro, Sudafrica), Tamar ci porta alla Cineteca di Gerusalemme, alle pendici della cinta muraria, dove ci vengono mostrati i frutti del progetto “I am you are”: ogni anno 35 ragazze e ragazzi israeliani e palestinesi tra i 15 e i 17 anni si trovano per un mese a girare dei cortometraggi che hanno come tema la scoperta dell’identità. Questi giovani apprendono un’arte come il cinema e insieme conoscono pieghe ignote della società israeliana. Il filmato che vediamo è sulla comunità africana palestinese. Alla fine del filmato, che racconta le discriminazioni che questi musulmani dalla pelle nera subiscono all’interno della società palestinese, la direttrice del programma ci racconta che in una scuola israeliana dove il film era stato proiettato un giovane ebreo etiope si è rivolto così ai suoi compagni: “Avete capito come mi sento io?”. Sono certamente soltanto delle gocce in un mare tempestoso, ma se i problemi non possono essere risolti, quanto meno questi giovani impareranno a parlarne.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas