25 dicembre
Se c’è un giorno in tutto l’anno in cui sono straordinariamente felice di appartenere a una esigua minoranza, e non vorrei per tutto l’oro del mondo fare quello che fanno gli altri, quello è il 25 dicembre: cosa c’è di più bello che ritrovarsi con amici ebrei a sciare su piste quasi deserte mentre tutti sono impegnati nel pranzo natalizio? In una città a pochi chilometri dalle montagne sono sicuramente in molti gli ebrei che approfittano di questa circostanza così favorevole da sembrare quasi un privilegio; dunque ritengo che Torino sia uno degli ultimi posti sulla faccia della terra in cui a qualcuno potrebbe venire in mente di organizzare un pranzo natalizio in Comunità, se non altro perché non ci verrebbe nessuno. L’Unione informa di venerdì scorso ha spiegato efficacemente come si è arrivati a questa notizia infondata (tra l’altro impossibile nel 2010, visto che il 25 dicembre sarà Shabbat): il neo designato Rabbino Capo di Torino ha presenziato a un congresso in cui si discuteva di un fatto accaduto in Francia; questo è stato riferito come opinione favorevole espressa da lui, poi come una sua idea; da lì si è passati ad attribuirgli l’intenzione di fare lo stesso a Torino e infine si è arrivati al titolo “La cena di natale in Comunità”. Forse non c’è stata malafede, ma solo qualche approssimazione dovuta alla necessità di sintesi e alla presupposizione che i lettori sapessero già di cosa si parlava, però alla fine un Rabbino e una Comunità ebraica italiana sono stati gravemente diffamati. Sembra di assistere al vecchio gioco del telefono senza fili, in cui ciascuno bisbiglia al vicino quello che ha sentito, che a sua volta bisbiglia quello che ha capito: ognuno ritiene di aver riportato il messaggio il più fedelmente possibile, ma alla fine ne viene fuori uno completamente diverso da quello di partenza.
Una cosa simile era accaduta già un paio di anni fa con una riunione in Comunità organizzata alle 17,30 di un venerdì in cui lo Shabbat entrava alle 21,01. In una lettera di protesta si lamentava che la riunione fosse stata fissata due ore prima della tefillà, ma poi poche righe più avanti si usava l’espressione “a due ore dall’arrivo di Shabbat” e poi ancora “ a ridosso di Shabbat”. Pochi giorni dopo qualcun altro riprendeva il discorso con un esempio israeliano di una cerimonia svoltasi un’ora e mezza prima dell’inizio dello Shabbat (con un’altra mezz’ora di sconto sulla verità) e, riassumendo inizialmente i fatti torinesi, parlava genericamente di “un venerdì pomeriggio”, con il rischio che i futuri lettori che non avessero fatto caso alla data potessero addirittura pensare a una riunione convocata di Shabbat. Certo, “tre ore e 31 minuti prima dello Shabbat e due ore prima della tefillà” è troppo lungo e suona male; “a ridosso di Shabbat” o “un venerdì pomeriggio” sono espressioni senza dubbio più efficaci, anche se magari un po’ imprecise.
Quando si discute dell’operato delle istituzioni ebraiche italiane conviene comunque, per farsi un’opinione, provare a risalire il telefono senza fili all’indietro per capire di cosa effettivamente stiamo parlando.
Anna Segre, insegnante