Qui Roma – Full immertion nell’arte ebraica
A dare il via alla lunga agenda della Giornata Europea della Cultura Ebraica nella Sala Margana è la dottoressa Elsa Laurenzi dottore di ricerca in Archeologia Classica presso l’Università di Roma La Sapienza, i cui studi sono focalizzati principalmente sulle testimonianze archeologiche della comunità ebraica a Roma in età imperiale (I-IV secolo d.C.), ed in particolare le problematiche legate alle sepolture ed ai riti connessi nelle ‘minoranze’ religiose in età antica. A questo riguardo appunto la dottoressa ha esposto un suo studio sulle catacomba ebraica di Vigna Randanini, scoperta casualmente nel 1859 nell’omonima proprietà da padre Garrucci, è il secondo cimitero scoperto a Roma, dopo quello, distrutto, di Monteverde. La catacomba si estende tra le attuali via Appia Antica e via Appia Pignatelli ospita varie tipologie di sepolcri: loculi, tombe a forno (kôkhim), arcosoli, fosse scavate nel pavimento e presenta numerosi cubicoli (vale a dire camere sepolcrali di committenza ‘familiare’), tra i quali, dato piuttosto raro, alcuni decorati ad affresco. Sono inoltre stati rinvenuti numerosi frammenti marmorei decorati a rilievo, e numerose epigrafi, prevalentemente in lingua greca.
Subito dopo prende la parola Adachiara Zevi, architetto e storica dell’arte, che ha presentato un suo contributo dal titolo “Musei ebraici: per quale arte?” . La Zevi parla del Museo come contenitore architettonico e del museo ebraico come possibile contenitore di arte contemporanea in un lungo percorso che si snoda fra i vari Musei ebraici nel mondo, sia quelli che sono stati creati in edifici già esistenti, sia quelli costruiti ex novo.
Fra i primi il Museo Ebraico di Parigi e il Jewish Museum di New York, che nel decennio fra il 1960 ed il 1971 si trovò ad essere il più importante museo di judaica esistente, ma anche il più importante museo della città.
Nella categoria dei Musei costruiti ex novo, il Museo Ebraico di Gerusalemme e quello di Berlino che occupa due edifici, uno già esistente, il barocco Berlin-Museum o Kollegienhaus, e uno contemporaneo, costruito appositamente per ospitare il museo e progettato da Daniel Libeskind. Libeskind ha voluto fare in modo che il visitatore provasse la stessa sensazione di straniamento e disagio che hanno provato gli ebrei esiliati e per questo motivo ha costruito il piano di calpestio inclinato di sei gradi in modo che camminando tra i pilastri si provasse una sensazione di una mancanza di equilibrio.
Fra gli altri musei creati da Libeskind il Museo di Copenaghen e il Museo di san Francisco all’interno della vecchia centrale elettrica, inaugurato nel 2008 costituito da un cubo alto circa 18 metri che compie una brusca torsione, ed un parallelepipedo dalla base rettangolare che percorre l’intera lunghezza della sottostazione. La combinazione di questi due elementi riproduce l’espressione “L’Chaim” ( alla vita), composta dalle due lettere “chet” e “yod”.
La Zevi parla poi del rapporto fra Museo ebraico e Museo della Shoah e conclude esprimendo la necessità che il Museo sia un luogo in cui l’arte contemporanea deve fare da protagonista.
Evoluzione dell’arte ebraica: dal simbolo al segno è il titolo della relazione dello storico dell’arte Cesare Terracina, che nella premessa prende spunto da una frase di Mark Rothko: “Se ha intenzione di sopravvivere, l’arte deve intraprendere un nuovo inizio. Per questo rinnova diligentemente le sue tradizioni attraverso la fusione con tradizioni esterne e riesamina i suoi stessi processi, ristabilendo di nuovo, per mezzo di questi espedienti, il contatto con le sue radici”. Secondo Terracina l’arte ebraica non potrà quindi “fare a meno di comprendere i valori simbolici legati alla tradizione, accogliendo l’interpretazione dei linguaggi contemporanei. Innegabilmente la base espressiva del mondo ebraico e la sua cultura visiva si sono sviluppate nei secoli a contatto con l’illustrazione della ritualità religiosa, vissuta come simbolica espressione del rapporto ebraico con la Toràh”.
“Attraverso il racconto contenuto nel testo biblico appare l’atteggiamento di diffidenza nei confronti della bellezza o verso i costumi ispirati dall’esaltazione della vanità personale, che innegabilmente avrebbero isolato il microcosmo sociale ebraico nella magia di un bello ideale, seducente elemento di disturbo alla centralità universale dell’etica monoteista. – prosegue Terracina – Ed è evidente che la percezione visiva dell’immagine, ampiamente limitata dalla facoltà della parola e dal suo infinito riflettersi nel testo scritto, disveli una forma di immaginario pressoché unico nella storia delle culture antiche: basti pensare alla kabbalàh e al suo simbolismo concentrato, non raramente, su una traccia d’immagine”.
Il lungo cammino intrapreso dal professor Terracina si snoda analizzando 2000 anni di storia dell’arte ebraica partendo Bezalél l’artefice ispirato cui viene ordinato di realizzare l’Arca delle tavole della Legge, passando per i complessi architettonici rituali di Ostia antica e di Bova Marina in Calabria, le decorazioni ispirate ai temi astrologici della sinagoga di Beth Alpha (VI sec. d.E.V.), e via via fino a giungere agli artisti di fine ‘800: “i giovani ebrei chassidici di Isidor Kaufmann (1853-1921) ed i ritratti di personaggi ebrei altolocati, committenti d’eccezione del grande Gustav Klimt, ma anche l’arte di Amedeo Modigliani, genio livornese approdato a Parigi e Chagall , “l’arcangelo dell’espressività ebraica, chassid e francescano, parigino e russo, artista senza radici radicato in una tradizione bimillenaria “.
Il simbolismo nell’architettura ebraica torna nel primo intervento pomeridiano Il Santuario nel deserto: verità e bellezza, a cura del professor Sergio Amedeo Terracina che parte da una premessa: il deserto come luogo della parola del Signore e il Mishkan (Santuario) come luogo mobile nel deserto e prima opera d’arte in assoluto.
Terracina parla del Santuario come microcosmo di vita ebraica, dei suoi elementi costitutivi e del simbolismo che viene attribuito ad ogni elemento nel Talmud dai Maestri, il candelabro, lo shulkhan, i materiali che vengono utilizzati per la veste del Coen oro, azzurro, porpora, lana scarlatta e bisso e infine dei suoi autori Betzallel e Aholiav.
La serata si tinge di mistero nell’intervento di Roy Doliner, studioso di lingue, di religioni comparate, di storia dell’arte, di storia latina e italiana e di tradizione ebraica. I segreti della Sistina. Il messaggio proibito di Michelangelo tratto da un suo libro edito da Rizzoli e scritto in collaborazione con Blech Benjamin. Analizzando alcuni particolari della celebre raffigurazione di Dio nel pannello della Creazione della Cappella Sistina, Doliner riferisce alcuni interrogativi che per la prima volta un chirurgo ebreo dell’Indiana, Frank Mershberger, si era posto: perché l’albero del Bene e del Male è un fico, e non un melo? Perché il serpente tentatore ha cosce e braccia, come descritto nei testi ebraici? Le immagini dell’affresco collocato nel cuore della cristianità secondo Doliner non sono affatto la summa del pensiero cristiano. Celano invece un messaggio rivoluzionario, e per quei tempi eretico, rimasto incompreso per secoli, influenzato dagli studi cabalistici di Michelangelo.
Lucilla Efrati