I best seller del pregiudizio
Nei primi decenni del secolo scorso l’odio per gli ebrei raggiungeva anche i più remoti angoli d’Europa grazie alle cartoline postali. Queste carte, oggi divenute oggetto di studio da parte degli storici, testimoniano con immediatezza la straordinaria pervasività dello stereotipo antisemita attraverso le loro illustrazioni, tristi e volgari al tempo stesso, che rappresentano caricature di ebrei dal naso adunco, ebrei che come ragni tessono la tela del dominio mondiale o ebrei dalle fattezze sataniche che accumulano patrimoni ai danni del popolo. Un ruolo per tanti versi analogo è quello svolto dalla letteratura di massa che propalando, attraverso intrecci e personaggi, luoghi comuni e pregiudizi raggiunge un pubblico ben più ampio di quello attento alla cosa politica. In Italia, così come nel resto d’Europa, spetta dunque ai romanzi il dubbio compito di inoculare nella mente dei lettori il seme dell’odio antisemita mettendo in scena belle ebree dai liberi costumi che tramano a favore del loro popolo o ebrei malvagi che cospirano contro l’umanità per impadronirsi del potere. Una prima analisi di questo fenomeno culturale la dobbiamo a Riccardo Bonavita (1968 – 2005), intellettuale comunista, studioso di letteratura italiana, autore di un’indagine acuta e originale della storia del razzismo politico italiano che prende le mosse dalla convinzione che la cultura razzista in Italia non si esaurisce nella parentesi delle leggi razziali ma scaturisce da un serbatoio d’idee e pregiudizi che si struttura già nei primi dell’Ottocento. Alcuni dei saggi scritti da Bonavita tra il ‘95 e il 2003 sono stati raccolti nel volume Spettri dell’altro – Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea (il Mulino, 2010) dall’amico Michele Nani, ricercatore al Dipartimento di storia dell’Università di Padova, esperto di storia del razzismo e del nazionalismo in Italia, che ha curato il libro insieme all’italianista Giuliana Benvenuti. “Fin dagli anni dell’università eravamo entrambi amici di Riccardo, con cui abbiamo condiviso molte esperienze. Sentivamo l’urgenza morale di rendere disponibili i suoi contributi disseminati in riviste e altre pubblicazioni e di pubblicare questo lavoro a cui lui stesso lavorando e che la sua scomparsa aveva lasciato in sospeso. Siamo riusciti a ricomporlo grazie alla disponibilità dell’editore, della moglie Cristiana Facchini e di tanti amici dando così conto di un percorso che ha anticipato di alcuni decenni la vague della ricerca sul razzismo italiano”.
In che modo il lavoro di Riccardo Bonavita è un anticipatore?
Oggi forse è difficile rendersene pienamente conto. Ormai sono tutti disposti, almeno per ciò che riguarda il Novecento, a guardare in faccia la robusta tradizione del razzismo italiano: fino agli anni Ottanta era invece un argomento molto controverso e molte voci negavano il coinvolgimento degli italiani e dello stato italiano nelle iniziative razziste. Le leggi razziali erano viste come mosse tattiche e politicamente inevitabili e spesso venivano rubricate alla voce colonialismo o imitazione della Germania. Già il fatto di eleggere il razzismo a tema di ricerca era controcorrente e ricercarlo nell’alta cultura in un certo senso lo era ancora di più. Siamo dunque davanti a una doppia innovazione che sembrò provocatoria e politica. Altro elemento innovativo è la percezione di come si studia il razzismo.
Parla dell’approccio alla letteratura?
Le ricerche fino allora si concentravano sull’aspetto della legislazione, Riccardo già si lanciava nella dimensione sociale e culturale: affrontando le idee dominanti e la loro ricezione nella società e nella mentalità collettiva. Studiare la letteratura, alta e bassa, il cinema o le arti figurative ci consente infatti di leggere una cultura impregnata di razzismo assai più ampia di quel che fino a un certo punto si pensava esistesse. Ed è una dimensione che spiega bene l’adesione di massa che avvenne in quegli anni.
Riccardo Bonavita analizza la narrativa di consumo di successo negli anni Trenta. Perché proprio questa scelta?
Molti di quei romanzi erano intrisi di gerarchie razziali sia nei confronti degli africani sia degli ebrei. Vi si ritrova una visione gerarchica e naturalistica dell’universo in cui le differenze sociali e culturali erano trascritte nel corpo degli individui. Vi è poi uno stretto nesso tra razzismo e sessismo. Il fatto stesso che i lettori amassero questi libri spiega come questi stereotipi venivano assimilati.
Che motivi vi si ritrovano?
Vi è una perfetta corrispondenza con letteratura antisemita ottocentesca: temi propri della polemica antigiudaica d’ispirazione cristiana s’impastano con le nuove minacce che pesano sulle comunità tradizionali e minacciano di sovvertirle e questi pericoli assumono un volto ebraico. È quanto accade ad esempio con il bolscevismo, che fu uno dei temi preferiti di Giovanni Papini, uno degli autori più apprezzati del filone.
Altri autori di successo?
Ricorderei Guido Milanesi che nel 1922 scrive Kaddish, il romanzo d’Israel e soprattutto nei primi anni Trenta Maria Magda Sala che scrive Russia & Israel, tra le spire della sacerdotessa d’Israel e Lino Cappuccio che firma L’esagramma, romanzo storico. Nomi come si vede oggi del tutto dimenticati ma che allora conobbero un buon riscontro di pubblico grazie a tematiche di chiaro stampo razzista.
Cosa sono gli spettri dell’altro che danno il titolo al volume da lei curato?
Sono queste immagini spettrali dell’alterità che abitano le pagine della letteratura e della cultura italiana del Novecento. Ci troviamo davanti a un altro che viene congelato in una rappresentazione costruita come diversa, inferiore e pericolosa e chiama a una controazione.
Bonavita parla di un vero e proprio “giacimento di stereotipi”. Di che cosa si tratta?
Vi sono materiali tradizionali della tradizione cristiana e prodotti della cultura moderna che vengono messi in movimento nella narrativa. E vi è anche un riuso razzista di Leopardi che viene arruolato dalla rivista La difesa della razza attraverso un sommario florilegio dallo Zibaldone. Il progetto di Riccardo era di non fermarsi alle leggi razziali e al razzismo coloniale ma di risalire il corpo del ventennio fascista alla ricerca delle radici di questa mentalità così da costruire la grammatica e la storia di un’alterità. Nelle sue intenzioni il volume doveva chiudersi sul destino di questi stereotipi nel secondo dopoguerra.
Da Pagine Ebraiche, ottobre 2010 – Dossier a cura di Daniela Gross e Daniel Reichel