Quel tabù odioso del piccolo borghese
Il furore antisemita non è frutto di un fuggevole oscuramento delle coscienze né di un improvviso palpito ideologico. L’odio degli ebrei si nutre invece della carne viva della società rielaborandone in modo sistematico temi, paure e ideali. A sostenerlo è Francesco Germinario, ricercatore alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, che a quest’argomento ha dedicato un importante studio dal titolo Costruire la razza nemica – La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel volume, pubblicato quest’anno da Utet, il professor Germinario analizza, utilizzando la pubblicistica dell’epoca, lo sviluppo del pregiudizio antiebraico. “Se pensassimo che l’antisemitismo è ideologia che sorge in modo spontaneo nella società contemporanea – spiega – commetteremmo un errore grossolano. Come qualsiasi ideologia politica l’antisemitismo non fa altro che riprendere e rielaborare aspetti politici della società in cui vive. E’ una cultura interna alla società”.
Professor Germinario, dove possiamo rintracciare la genesi dell’immaginario antisemita contemporaneo in Europa?
Per molti aspetti l’immaginario antisemita moderno rielabora in chiave secolarizzata stereotipi appartenenti alla tradizione cattolica antigiudaica, ad esempio l’identificazione tra l’ebreo e il denaro o lo stereotipo della “razza pazza”. Ciò avviene soprattutto per due motivi. Nella seconda metà dell’Ottocento compaiono i primi movimenti politici di contestazione della società liberale, tra cui il socialismo, l’anarchismo e i movimenti sindacali. In questo momento, in cui la modernità liberale mostra le prime crepe, l’antisemitismo è un movimento di contestazione, insofferente della modernità e soprattutto della modernità pluralista e liberale. Non è un vero e proprio movimento di rottura dal punto di vista culturale ma è comunque una teoria politica rivoluzionaria perché intende rovesciare la società liberale e borghese.
Quali sono le categorie su cui si fonda?
Alla base dell’antisemitismo moderno c’è l’idea che l’ebraismo cospiri per la tirannide mondiale. Vi è la riduzione dell’ebraismo a razza e la convinzione che l’epoca liberale sia quella dell’ebraizzazione degli individui. In quest’epoca tutti assumerebbero atteggiamenti, cultura e relazioni personali e sociali che alcuni autori definiscono “biblici”, “talmudici” o “salomonici”: comportamenti più liberi, ispirati all’egualitarismo. Ciò che l’antisemitismo imputa alla società liberale è proprio il fatto che l’emancipazione dal ghetto non ha affatto deebreizzato gli ebrei, come invece si pensava sarebbe accaduto. Viceversa l’ebreo liberato dal ghetto ha ebraizzato chi non lo era influenzando il suo modo di vivere e di pensare.
Come si passa da queste teorie all’antisemitismo novecentesco con le sue tragiche conseguenze?
Distinguerei fra un antisemitismo monotematico e uno contaminato. I primi sono di contestazione della società, battono su un solo tema e non riescono ad allargare in modo esplicito la loro udienza. Si ritagliano dunque spazi molto ristretti di mercato politico. L’antisemitismo diventa pericoloso nel momento in cui si contamina e si incrocia, negli anni Venti e Trenta, con altre ipotesi politiche, pensiamo al nazismo e all’estrema destra, che sono antisemiti ma sono anche altro. In quel momento entra in azione una miscela esplosiva. Il problema non è solo di distinguere fra l’una e l’altra forma ma di interrogarsi su questa contaminazione con movimenti politici generalisti esplicitamente totalitari che dimostra come già dall’inizio l’antisemitismo aveva una chiara vocazione totalitaria che non era però riuscito a organizzare in modo autonomo. Anche la versione monotematica può quindi essere considerata un orientamento a chiara vocazione totalitaria, in cerca dei movimenti politici con cui convolare a nozze.
Da Pagine Ebraiche, ottobre 2010 – Dossier a cura di Daniela Gross e Daniel Reichel