I perseguitati? Un fardello di redenzione
Qual è il ruolo degli ebrei in Sotto il cielo di Roma? A dire il vero, sembrano stare in scena solo come comprimari, semplice espediente della storia narrata e pretesto per mettere in risalto il coraggio del papa e dei suoi seguaci. La love story di Davide per la bella Miriam è poco più di un condimento drammatico, che serve a creare un po’ di suspense in un film altrimenti talmente scontato e prevedibile che si rischia di cambiar rapidamente canale dopo aver capito il proposito che si vuole raggiungere, scagionare Pio XII, papa Pacelli, da ogni sospetto di non aver fatto niente o non aver fatto abbastanza, al momento delle deportazioni degli ebrei di Roma e di fronte allo sterminio dell’ebraismo europeo. Si tratta insomma di un’agiografia di papa Pacelli, non di un’analisi storica di quali poterono essere i diversi significati del suo comportamento durante il conflitto bellico. Da questo punto di vista lo sceneggiato televisivo Sotto il cielo di Roma si propone come una sorta di risposta al modo in cui il personaggio di Pio XII era stato raffigurato nel film Amen di Costa Gavras del 2002, pusillanime se non compiacente con i nazisti. Gli ebrei insomma appaiono come strumenti che la provvidenza ha messo nel cammino del Papa per mettere alla prova la sua virtù. Vittime designate dalla storia sono pertanto esonerati da responsabilità morali se non quella di mettersi in salvo, tutt’al più oggetti etici di dilemmi morali altrui, in particolare di quelli che essi creano al pontefice. Sin qui nulla di particolarmente nuovo in un cinema italiano che sembra essere ancora legato all’immagine dell’ebreo vittima sacrificale e come tale destinata a uscire di scena o a rimanere ai margini della storia, e questo quando negli ultimi anni nel cinema internazionale si assiste a una progressiva revisione, spesso in modo non meno problematico di prima, dell’immagine dell’ebreo a cui vengono assegnati ruoli attivi e di resistenza – basti citare Defiance di Edward Zwick del 2009 sul gruppo partigiano formato dai fratelli Bielski, i Counterfeiters del 2007 di Stefan Ruzowitzky o ancora l’ultimo film di Quentin Tarantino Inglorious Bastards dell’anno scorso. Tuttavia il film Sotto il cielo di Roma veicola un messaggio addizionale ben più pernicioso. Gli ebrei infatti non solo sono raffigurati mentre si trascinano pesanti valigie, simbolo dell’uomo in perpetua fuga, ma sono presentati come fardello essi stessi, per coloro che li circondano e per il papa in particolare. Intendiamoci, un fardello non perché siano di per sè cattivi e antipatici, ma pur sempre un fardello perché sempre bisognosi di protezione, di soccorso, di compassione.
La loro presenza inoltre rischia di fare ostacolo al riconoscimento di quanto la Chiesa ha cercato di dimostrare sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, ovvero che perseguitando gli ebrei in realtà il nazismo stava colpendo il cristianesimo e i cristiani, in quanto rappresentanti del Bene. Per questo il film mostra la sofferenza ebraica, come una specie di catastrofe naturale, le cui cause storiche non interessa indagare, e sempre in relazione a quella del pontefice, che si priva delle sue razioni alimentari per provvedere alla fame dei bambini nascosti nei conventi. Il film insomma sposa la tesi che il papa, per il solo fatto di essere uscito incolume dalla prova a cui i tedeschi, per l’intermediario degli ebrei, lo avevano sottoposto è quindi l’unico che in fin dei conti va compatito e ammirato. Ma al di là della particolare interpretazione del ruolo quanto meno controverso nella storiografia contemporanea che il film vuol dare dell’operato del pontefice, si rimane perplessi sul significato della frase con cui il personaggio di Pio XII nello sceneggiato televisivo giustifica la sua posizione: “ognuno ha la sua croce”. Che la croce del papa siano gli ebrei non è difficile capirlo. Questa è l’ennesima prova che non basta che un film tratti di Shoah per essere automaticamente considerato serio.
La gravità dell’argomento dovrebbe indurre a maggior prudenza e modestia i registi che sempre più numerosi e spensierati affrontano il tema. Ma che la Shoah venga utilizzata per giustificare piani provvidenziali di ogni genere è cosa che lascia alquanto perplessi.
Asher Salah, critico cinematografico