Roma abbraccia i suoi sopravvissuti
Studenti, autorità, persone comuni, fianco a fianco per ascoltare le parole dei sopravvissuti, dei testimoni dell’orrore di Auschwitz, per raccogliere “Il dono del racconto” di questi preziosi testimoni. Nel Giorno della Memoria le porte del Tempio Maggiore di Roma, alle ore 20, si aprono, per il secondo anno consecutivo, a un evento dal grande valore storico quanto educativo: un incontro con i sopravvissuti ebrei ai campi di sterminio nazisti. È un momento di grande significato, un’occasione in cui ricordare quanto è stato e riflettere sul passato, ma con lo sguardo rivolto al futuro perché, come dice il sottotitolo dell’incontro “il loro ieri non sarà il nostro domani”. Un evento fortemente voluto dalla Consulta della Comunità ebraica di Roma, presieduta da Elvira Di Cave, e moderato dal direttore del futuro Museo della Shoah della Capitale Marcello Pezzetti che nelle interviste in queste pagine ne raccontano le motivazioni. I protagonisti, però, sono i testimoni, che fra commozione, difficoltà, sorrisi, raccontano la propria esperienza, trovando finalmente un pubblico che li ascolta. Per molti anni, infatti, il rumoroso silenzio dei sopravvissuti ha accompagnato la società italiana; silenzio rotto inizialmente solo da pochi fra cui, ovviamente, Primo Levi. Impossibile comprendere, per chi non l’ha vissuta, la traumatica esperienza di Auschwitz. Altrettanto difficile, dunque, parlarne all’esterno, persino alla propria famiglia. La paura di non essere capiti, ascoltati o addirittura creduti ha accompagnato a lungo molti testimoni ma negli ultimi dieci anni c’è stata un’inversione di tendenza: voglia di raccontare al mondo che sono vivi, nonostante tutto; un riscatto morale sugli aguzzini ma anche un monito per le future generazioni. In questo contesto rientra pienamente l’importante incontro romano che assume ancor più rilievo in un periodo storico in cui il negazionismo comincia a farsi sempre più pericoloso. Contro questa ignoranza, l’antisemitismo, la stupidità, i testimoni rispondono con i loro sorrisi, con le loro esperienze di vita vissuta, di dolore tangibile. Non solo quello sofferto nei campi di concentramento ma anche il grande rimorso nei confronti di chi non è tornato. In molti, infatti, hanno spiegato di essersi chiesti “perché io; perché sono sopravvissuto all’orrore e gli altri no”. Un senso di colpa difficile da comprendere, espresso con dignitosa lucidità davanti ad un pubblico attento e commosso. “Quando sono tornato mi sono sentito in colpa per essere scampato alla Shoah e mi sono chiesto perché proprio io – raccontava Sami Modiano nell’incontro del 2009 – Solo adesso capisco il perché e lo vedo ogni volta che incontro i ragazzi e gli studenti nelle scuole per raccontare la mia storia”. Roma ricorda ancora la ferita del 16 ottobre 1943, il giorno del rastrellamento del ghetto della Capitale in cui tantissimi ebrei furono catturati e poi deportati ai campi di concentramento nazisti. Il Giorno della Memoria serve a portare l’attenzione del grande pubblico su questi fatti, storie che fanno parte del passato italiano e che è necessario ricordare; perché, come sostengono in molti, un Paese che non conosce il suo passato, che non fa i conti con esso, non può avere un futuro. Per questo le testimonianze dei sopravvissuti, di cui in queste pagine, a partire da oggi e per i prossimi giorni, fino al 27 gennaio, giorno in cui cade l’evento, potete leggere alcuni preziosi stralci raccolti da Lucilla Efrati, sono un momento fondamentale di confronto e riflessione. Il loro è il racconto in prima persona della realtà, un monito contro chiunque sostenga le aberranti tesi negazioniste. E i testimoni, si rivolgono con attenzione ai giovani, alle future generazioni, perché combattano per i diritti e il rispetto delle persone, perché non si lascino avvelenare dall’indifferenza.
Giuseppe Di Porto
Quando sono tornato, ho maledetto il momento in cui ho messo piede a Roma, ho subito tante domande imbarazzanti, la gente voleva sapere che cosa mi era accaduto, come avevo fatto a salvarmi, però dentro di me mi sentivo offeso, avvertivo in loro il dubbio che avevo fatto qualcosa di male perché io ero vivo e tanti altri no. Mi sono chiesto spesso se si rendevano conto che avevo rischiato la vita decine di volte. Sono l’unico internato che è riuscito a scappare dal campo di concentramento, la mia storia ha dell’inverosimile, Nel Gennaio del 1945 l’Armata Rossa aveva invaso la Polonia. Il 18 Gennaio, i nazisti decidevano scappare e di evacuare i detenuti. Iniziava una lunga marcia della morte. Dopo tre giorni di cammino, molti uomini erano già morti per il freddo o per le violenze subite. I tedeschi si fermarono in una grande radura. Dopo avere accerchiato il nostro gruppo, iniziarono a sparare all’impazzata. Vidi mio cugino morire, iniziai a correre senza fermarmi, una lunga corsa in mezzo ai boschi, dove incontrai uno sconosciuto che mi disse di essere jugoslavo anch’egli prigioniero con il quale riuscii a superare le linee tedesche e mettermi in salvo. Di quell’uomo non ho mai saputo il nome e non non ne ho saputo più nulla, non sono riuscito a rintracciarlo, ma oggi ogni volta che posso parlare, raccontare, spiegare quello che abbiamo vissuto nei campi di concentramento, mi tolgo un peso dallo stomaco. Solo chi lo ha vissuto può far capire quello che abbiamo sofferto, come fa un uomo che è abituato al clima di Roma a vivere a 15-20 gradi sotto zero, con la fame e la fatica? Io ho rischiato la vita per un mestolo di acqua calda, per rubare un tozzo di pane duro sporco degli escrementi dei maiali e ogni volta che posso raccontare tutto questo e far capire ai giovani quello che è stato, lo voglio fare per gridare che niente di tutto questo deve più accadere.
testimonianza raccolta da Lucilla Efrati