Memoria – Perché non accada mai più
Giovedì sera, Giorno della Memoria, le porte del Tempio Maggiore di Roma, si aprono per il secondo anno consecutivo, per un incontro con i sopravvissuti ebrei ai campi di sterminio nazisti, un evento fortemente voluto dalla Consulta della Comunità Ebraica di Roma, presieduta da Elvira Di Cave e moderato dal direttore del futuro Museo della Shoah della Capitale, Marcello Pezzetti, intervistato sul numero in uscita di Pagine Ebraiche.
“Come diceva Bauman, la Shoah è simile a una finestra. Spingendo lo sguardo attraverso quella finestra è possibile cogliere una rara immagine di cose altrimenti invisibili”, spiega Marcello Pezzetti, direttore del futuro Museo della Shoah di Roma ed esperto del Centro di documentazione ebraica contemporanea. Secondo Pezzetti, il nostro dovere è proprio quello di portare il nostro sguardo al di là della finestra: solo così potremo comprendere a pieno la realtà. E occasioni come la serata del 27 gennaio al Tempio Maggiore di Roma ci consentono di farlo nel modo migliore. “Il dono del racconto” dei testimoni, dunque, deve essere visto anche in quest’ottica.
Professor Pezzetti, lei sta portando avanti un’approfondita ricerca sui sopravvissuti, cercando di recuperare la storia di ciascuno di loro. Per anni, però, molti testimoni hanno preferito tacere e fra le motivazioni c’era la paura di non essere compresi. Cos’è cambiato da allora? La società ora è più pronta di prima?
In parte, anche se continuano a non esserci le condizioni migliori. È vero che viviamo in una società che complessivamente è più capace di ascoltare ma molti testimoni hanno deciso di rompere il silenzio indipendentemente da fattori esterni. Diciamo che hanno cambiato tattica. I sopravvissuti hanno deciso di donare i loro racconti.
E la società li ha recepiti?
Per adesso siamo ancora lontani; la sordità è ancora diffusa. Da una parte perché manca una presa di coscienza di massa del passato, in particolare da noi in Italia. Altrimenti non si spiegherebbe perché nel nostro Paese ancora non è stato creato un museo sul fascismo. Cosa che sarebbe impensabile in Germania. Dall’altra, la nostra società ha una soglia di sopportazione delle tragedie troppo elevato: guardi quanto è accaduto nei Balcani, siamo già riusciti a digerire o peggio dimenticare quanto è accaduto pochi anni fa.
“Il loro ieri non sarà il nostro domani”, recita il sottotitolo dell’evento. Un auspicio o un’affermazione che rappresenta la realtà?
In generale credo sia vero. Insomma, viviamo in un’Europa democratica, in cui vigono costituzioni a tutela dei cittadini e trattati internazionali che proteggono i diritti dell’uomo. La mia preoccupazione però è per le minoranze: non dobbiamo sopportare alcuna violazione nei loro confronti, di qualsiasi minoranza si tratti. Il nostro limite di sopportazione deve essere bassissimo. Ricordo ancora le parole della sopravvissuta Goti Bauer, per cui uno dei momenti di più difficili e dolorosi della sua vita fu scoprire cosa aveva fatto Pol Pot. Il racconto dei testimoni ci insegna a continuare a vigilare perché queste tragedie non accadano più; ci insegnano a impegnarci in prima persona per evitarle. Loro ci danno le chiavi e noi dobbiamo imparare a usarle.
E’ questo il significato di iniziative come quella del Tempio Maggiore di Roma?
Sì e l’attenzione deve essere in particolare diretta ai giovani. Devono recepire questo messaggio, perché possono ancora cambiare le cose. Gli altri oramai sono persi, sono indifferenti a quanto gli sta intorno. La scommessa sono le future generazioni. A loro, però, è necessario rivolgersi con un linguaggio chiaro, semplice, diretto e che al tempo stesso non faccia sconti, come del resto fanno i testimoni che raccontano le proprie esperienze nude e crude, non hanno peli sulla lingua e dicono esattamente cosa pensano.
Daniel Reichel
Piero Terracina
piero terracinaSono stato in silenzio, per parlare ci voleva qualcuno che ascoltasse. Non c’era. La gente non voleva sapere. La fame è fame, ma la fame ad Auschwitz non la si poteva descrivere, perché lì mancava la speranza di poter placare la fame, mentre quelli che si erano salvati dai campi di concentramento, magari un giorno non mangiavano, ma avevano la speranza che il giorno dopo sarebbe andata meglio. Quando siamo tornati, la gente voleva tornare a vivere e non pensarci più tanto. Io sono stato uno degli ultimi a rientrare a Roma, nel dicembre 1945, anche se ero stato liberato a gennaio, e ricordo che quando venivamo fermati dai parenti di quelli che non erano tornati e che volevano sapere, questi colloqui terminavano sempre con la frase: “ma tu come ti sei salvato?” Questa per me era una frase agghiacciante che mi paralizzava. Come si faceva a spiegare perché io mi ero salvato e tutti gli altri no? Poi siamo arrivati agli anni ’80 Primo Levi che ci aveva rappresentato in tutti quegli anni ci aveva lasciato e i primi rigurgiti di antisemitismo, la bara lasciata davanti al Tempio maggiore e la profanazione del cimitero francese di C. è stato quello il momento in cui ho capito che non potevo più tacere. Ogni volta è assolutamente lacerante, però questa commozione che indubbiamente c’è, si trasmette e crea questo circuito. Io credo che anche questo serva alla Memoria. Nell’ultimo anno ho parlato in 71 scuole in tutta Italia, al Forum Mandela di Firenze ho parlato davanti ad undicimila giovani insieme al Premio Nobel Imre Kertesz, Amos Oz, mentre Boris Paor ha fatto giungere un contributo registrato. Oggi credo che la testimonianza sia determinante perché i giovani rappresentano il nostro futuro, con molti di quelli che ho conosciuto sono rimasto in contatto, rispondo alle loro email, è faticoso a volte, ma non si possono deludere i giovani…
testimonianza raccolta da Lucilla Efrati