Davar Acher – L’importanza di non tacere
Ma ha senso “fare il tifo per Israele” dalle tribune, o fuor di metafora, scrivere e parlare per lo Stato ebraico stando in Italia, in Francia, negli Stati Uniti, insomma dovunque salvo che nel campo dove la partita si gioca davvero, cioè in Eretz Israel? Non sarà una pratica appena rilevante sul piano psicologico dell’incoraggiamento alle squadre, o magari senza neanche quell’effetto: un puro sfogo della passione, come quando si fa il tifo da casa davanti alla televisione e ti sentono solo i vicini, che magari vogliono dormire e non gradiscono? E’ una domanda seria che non può evitare di porsi chi in questa attività investe parecchio tempo, energia e passione. Volendo sviluppare un’attività ebraica, non sarebbe meglio studiare i testi della nostra tradizione, come gli intellettuali ebrei fanno da millenni, o in senso più laico e “moderno” occuparsi di storia, di antropologia, di arte o di cucina ebraica, lasciando che che lo Stato di Israele pensi da sé alla propria sicurezza, come riesce a fare con successo dalla sua fondazione o anche prima?
Sarà l’illusione del tifoso che pensa di poter influenzare la partita col proprio desiderio, ma io credo che operare per difendere Israele nel mercato delle idee, fare quel lavoro che si è a lungo definito hasbarà (comunicazione, informazione – ma sembra che il termine non vada più di moda), farlo dalla diaspora, dall’Italia, su queste pagine sia utile, e anzi essenziale. Provo a spiegare perché. In primo luogo, naturalmente, noi ebrei della diaspora non siamo puri spettatori fuori dalla partita. Il rapporto fra antisemitismo e demonizzazione di Israele è circolare e ci coinvolge: è l’”odio antico” contro gli ebrei che provoca l’ostilità assolutamente fuori misura che Israele incontra in buona parte dell’opinione pubblica internazionale; ed è il rancore antisraeliano ad alimentare ulteriormente l’antisemitismo. Difficile ignorare questo nesso per gli ebrei della diaspora. O accettano di condannare Israele, come fu per esempio chiesto agli ebrei italiani da fonte autorevolissima pochi giorni prima dell’attentato alla sinagoga di Roma in cui fu ucciso il piccolo Gay Taché, o incombe loro l’obbligo di continuare a spiegare ai loro concittadini, giorno dopo giorno, perché Israele ha ragione ed è giusto stare dalla sua parte.
In secondo luogo, nel mondo contemporaneo, la guerra è in buona parte comunicazione, le armi si muovono solo dopo un fuoco di sbarramento di idee e di parole; spesso i fatti sono provocati apposta per essere “notiziabili”, cioè per produrre una reazione dell’opinione pubblica. Questa regola generale è particolarmente vera per Israele: flottiglie e attentati destinati a suscitare reazioni, marce della terra e Giornate della Nabkah, calunnie sulle “colonie”, sulle armi israeliane o su progetti fantascientifici per distruggere le Moschee di Gerusalemme, manifestazioni e scontri degli “attivisti” internazionali, tutta un’attività senza rilievo militare diretto ma di forte impatto comunicativo serve a produrre eventi che possano essere rimproverati a Israele e a sostenere la sua criminalizzazione. Israele in questa guerra della comunicazione combatte male e a fatica: essendo una democrazia pluralista con equilibrio dei poteri e dominio della legge, non può mentire, tramare, organizzare crimini come i suoi nemici governati da dittature. Non eredita come gli arabi (e il mondo cattolico che in questo assomiglia loro) una millenaria letteratura d’odio né gli apparati propagandistici nazisti e comunisti che sono appannaggio dei suoi nemici in Europa. Inoltre la mentalità israeliana è in buona parte ancora quella sabra che fa da sé, bada ai fatti e non alle chiacchiere, non crede di dover dimostrare nulla a nessuno, ha uno spirito aperto o se vogliamo una fiducia un po’ ingenua nella volontà degli altri di riconoscere le cose come sono.
Il risultato di questa situazione, cui vanno aggiunti altri fattori negativi come la potenza dei petrodollari o l’antica ostilità cristiana contro gli ebrei, è uno stato dell’opinione pubblica in cui la colpevolezza di Israele nel conflitto mediorientale è un fatto scontato che non occorre dimostrare e così la moralità di aiutare i suoi nemici. Hamas, Hizbullah, Fatah, i terroristi salafiti ecc. sono spesso giustificati dall’opinione pubblica in gesti che non sarebbero certamente accettati dall’Ira o dall’Eta o dai tibetani o da qualunque altro movimento nazionalista o rivoluzionario proprio perché diretti contro Israele. Boicottaggi e altre manifestazioni di odio sono proposte e realizzate solo contro lo Stato ebraico, in mezzo a tutti i conflitti che dilaniano il mondo. Insomma vi è uno schieramento anti-israeliano largamente maggioritario a livello globale, che ha il carattere ormai di un pregiudizio, cioè precede e sostituisce il giudizio sui fatti. Qualunque cosa accada – la rivolta in Siria, i lanci di missili da Gaza e le successive rappresaglie, perfino gli attentati più sanguinosi come quello ultimo in Bulgaria – sono presentati come colpa di Israele. La stampa nella sua grande maggioranza e soprattutto nei suoi settori di sinistra che si autodefiniscono di élite (Le Monde e Il Pais, Il Guardian e il New York Times, in Italia Republica) alimenta questo pregiudizio con una disinformazione sistematica. Vi sono settori del mondo ebraico che per interesse o per ideologia, o anche solo per l’illusione di deviare da sé la pressione di quest’odio, fanno il possibile per unirsi al coro o per cercare una posizione “al di sopra delle parti”, che è di sostanziale complicità. Continueranno senza dubbio anche loro ad essere oggetto di antisemitismo, ma intanto fanno danno: “se lo dicono anche loro” che Israele ha torto, le sue colpe devono certamente essere evidenti.
Si può ignorare questa situazione? Non credo che questo sia possibile né per Israele né per l’ebraismo, senza ricadere almeno in parte in quest’ultima forma di complicità. Anche essendo forte sul piano tecnologico economico e militare, avendo magnifici risultati interni e una forse temporanea ma notevole tranquillità ai confini, Israele non può permettersi di ignorare l’odio che lo circonda e non può non cercare di controbattere, mostrando i fatti che documentano il suo buon diritto. E gli ebrei della diaspora devono partecipare a questo sforzo in prima fila, se non vogliono collaborare alla propria stessa futura rovina. Non possiamo permetterci il lusso di tacere. Non solo per generosità, amore, attaccamento; ma semplicemente perché è un fatto che gli ebrei sono responsabili l’uno per l’altro, e soprattutto perché siamo considerati come tali dai nostri nemici. Qualunque cosa faccia Israele verrà rinfacciata a tutto il popolo ebraico; chiunque vorrà ferirlo potrà colpire noi. Dunque è necessario combattere la guerra della propaganda, denunciare le falsità diffuse dai nostri nemici, spiegare quel che la stampa tace. E’ necessario mostrare le ragioni di Israele, spiegare pazientemente quel che accade, comunicare le realizzazioni dello Stato ebraico e il suo carattere democratico. Non si tratta di fare il tifo, ma di comunicare, spiegare, chiarire, fare controinformazione. Parlando alla popolazione generale, prima di tutto, ma anche chiarendo le cose al nostro interno, per fornire argomenti ed evitare che si diffonda quel fenomeno della complicità coi nostri nemici che non è una tentazione permanente, oggi più che mai.
Questo non significa intervenire nel dibattito interno israeliano o pretendere dall’estero dove effettivamente “si vede meno” di dirigere la politica israeliana. Chi ha intenzione di farlo farebbe certamente bene innanzitutto a trasferirsi lì. Ma proprio per questo è necessaria una comunicazione non certo acritica ma sempre positiva, che accolga le ragioni di Israele così com’è e non come uno può legittimamente sognare che sia. Il messianesimo, l’ideale di una perfezione etica collettiva è una nobile tradizione culturale e religiosa del nostro popolo e così l’aspra critica dell’insufficienza e del peccato; ma non è certamente questa oggi la comunicazione utile da diffondere nel mondoi. Si tratta invece di segnalare tutto quel che c’è di buono (ed è tantissimo) in Israele, tutti i pericoli e gli attentati che la stampa internazionale non descrive (e sono tantissimi anche loro), tutta la funzione positiva dal punto di vista democratico che Israele compie nella sua regione, tutti i pregiudizi e le menzogne che lo circondano.
Non è poco, richiede un impegno di documentazione e di comunicazione decisamente faticoso e difficile. Siamo in tanti in tutto il mondo che dedichiamo a questo sforzo tempo ed energie- tanti ma molto meno dei professionisti dell’odio verso Israele (e dei dilettanti che li seguono). Sarà un lavoro inadeguato, a tratti avrà un tono un po’ troppo polemico o stridulo. Non bisogna illudersi di poter condizionare direttamente l’azione dei governi, o conquistare la maggioranza dell’opinione pubblica. Ma rompere l’unanimità, il luogo comune della condanna di Israele sì, far circolare l’informazione che manca, esporre i dati e i fatti che sono nascosti, smentire le calunnie: questo sì, è possibile e necessario. Dunque per favore, non diteci che dovremmo starcene zitti e lasciare che la propaganda islamista (o comunista o neonazista, sono molto simili) dipinga Israele come l’origine di tutti i mali del mondo. Tacere oggi, non partecipare alla guerra dell’informazione sarebbe peggio di un peccato, sarebbe un errore.
Ugo Volli – twitter @UgoVolli