The Economist – Talmud e cheesecake

Alive and well, vivo e in buona salute. Così il prestigioso settimanale inglese The Economist ha definito l’ebraismo e il popolo ebraico nel suo speciale Judaism and The Jews pubblicato alla fine del mese di luglio. Un report a 360 gradi sulla vita ebraica in Israele e nella Diaspora che è stato commentato da autorevoli voci dell’ebraismo italiano sul numero di Pagine Ebraiche di settembre attualmente in distribuzione, dalla storica Anna Foa al demografo Sergio Della Pergola.
Pubblichiamo qui di seguito l’articolo dello speciale dedicato alla religiosità in Israele, nella versione italiana di Ada Treves.


Israele sta cambiando, in direzione di un ebraismo più pluralista.

Per verificare quanto effettivamente l’ebraismo in Israele sia in buona salute si sarebbero potuti fare due passi nelle gallerie del Tel Aviv Museum of Art il 26 maggio scorso, in occasione della festa di Shavuot (che ricorda quando D-o ha donato la Torah agli ebrei). Da mezzanotte all’alba centinaia di persone, quasi tutti laici, si sono aggirati, programma alla mano, scegliendo fra lezioni di ecologia, mitologia, letteratura israeliana moderna, arte o fotografia. Si poteva anche scegliere una delle lezioni di Talmud, o quella su D-o. La nottata si è conclusa con un recital pianistico.
Una serata molto differente dalla tradizionale notte di Shavuot, chiamata tikkun, che si perpetua da centinaia di anni. Si tratta di leggere testi sacri e studiare il Talmud tutta la notte per poi, all’alba, pregare per celebrare il dono dei Dieci Comandamenti sul Monte Sinai. Un paio di miglia più in là lungo la strada, a Bnei Barak, città di haredim, gruppi di israeliani ultra-ortodossi – solo uomini – stavano facendo il tikkun tradizionale. In tutto il paese vari gruppi – di tutte le gradazioni di ortodossia ma anche alcuni laici – erano riuniti per la sessione di studio notturna. A Gerusalemme in migliaia all’alba si sono diretti verso il Kotel. A Tel Aviv si sono riuniti a pregare in spiaggia. Fino a qualche anno fa nessuno, tranne gli ultra-ortodossi, aveva neppure sentito parlare del tikkun. Per la maggior parte degli israeliani Shavuot era la festa in cui si mangia cheesecake.
“Oggi si trova ebraicità alla televisione, alla radio, nella musica, danza e a teatro. Non era mai stato così. Questa è la misura del nostro successo”. Sono le parole di Ruth Calderon, fondatrice di Alma, il gruppo che ha organizzato le lezioni al museo e che funziona da centro di studi ebraici tutto l’anno, a Tel Aviv. Ruth Calderon si concentra su scrittori, artisti e musicisti. “Credo nelle elite – dice – attraverso di esse arriviamo a tutti”. Nonostante un PhD in Talmud è ostinatamente laica. “Gli israeliani più giovani conoscono la Torah, ma Ben Gurion ci ha depredati della saggezza talmudica. Sono cresciuta qui e non conoscevo la mia stessa cultura. Ora le persone sono più aperte, curiose, pronte ad ascoltare.”
In una ricerca sulle credenze e pratiche religiose fra gli israeliani ebrei condotta nel 2009, il 46 per cento si è definito laico, ma solo il 16 per cento ha dichiarato di non osservare in alcun modo le tradizioni. Ma anche quella cifra in realtà è probabilmente troppo alta, hanno scoperto i ricercatori, perché solo il 6 per cento ha dichiarato di non attribuire alcun valore alla circoncisione, e solo il 10 per cento non trova il tempo per il seder di Pesach. Circa il 70 per cento degli intervistati dichiara di mangiare solo cibo kasher. La maggioranza osserva lo shabbat, nonostante solo un terzo lo faccia “meticolosamente” e nonostante la maggior parte di loro sia contraria ad imporre tali restrizioni ad altri. Un sorprendente 20 per cento ha dichiarato di aver partecipato alla notte di studio a Shavuot.
Tutto questo potrebbe significare che Israele sta diventando un posto più religioso, non solo per l’aumento demografico degli ortodossi e degli ultra-ortodossi, oppure che la vecchia dicotomia fra laici e religiosi si sta sgretolando man mano che le persone scelgono e decidono di sviluppare un ebraismo israeliano moderno e pluralistico.
Quest’anno un gruppo di dipendenti e di studenti del dipartimento di storia antica della Hebrew University di Gerusalemme ha fatto un viaggio nel Peloponneso. “Su 35 persone una sola, donna, era osservante – racconta il docente Alex Yakobson – ma tutto l’intero gruppo non ha sollevato nessuna protesta ed ha lasciato l’antica Olimpia, il luogo più importante che abbiamo visitato, pur di rientrare in albergo prima del tramonto di venerdì. E il gruppo, seppure laico nella quasi totalità dei suoi componenti, ha voluto fare la kabbalat shabbat. A casa non lo facevamo ma all’estero in qualche modo sembrava la cosa giusta. La donna osservante non poteva celebrare, ovviamente, visto lo sciovinismo della nostra religione. Abbiamo così scelto uno studente maschio come rabbino. Si è messo un cappello in testa ed ha iniziato a leggere i testi sul computer… qualcuno si era procurato del vino, e c’erano delle sorta di challot (pani intrecciati) e tutti abbiamo cantato… Ovviamente non era proprio una cosa tradizionale. Ma quello che stavamo facendo era parte della nostra cultura israeliana. Sia la cultura ebraica contemporanea che la lingua ebraica stessa sono parte dell’ebraismo, dell’ebraicità. La religione e la tradizione sono ovviamente una parte fondamentale della cultura. E una cultura non può cambiare le proprie fonti in maniera retroattiva. La maggior parte degli israeliani non vuole che lo faccia”.
Il parere di Alex Jacobson è indubbiamente significativo perché si tratta di una voce intellettuale importante, parte della comunità russo-israeliana. “I miei genitori erano il prodotto dell’assimilazione dei loro genitori – racconta – Mia nonna sosteneva di aver scordato lo yiddish. Ma non ha mai, neppure per un solo momento, negato la sua ebraicità”.
La maggioranza della comunità russo-israeliana, ora forte di più di un milione di persone, è arrivata negli anni Novanta, dopo il collasso del comunismo. “Dal 1991 al 1999 si è avuto un certo grado di declino nell’attaccamento alla tradizione e alla religione ebraica, apparentemente per effetto della numerosa immigrazione dall’ex Unione Sovietica – riporta la ricerca – mentre dal 1999 al 2009 questo attaccamento è cresciuto.”
Gli immigrati russi si stanno intenzionalmente assimilando nella società israeliana, dice Yakov Jacobson, e il comportamento basato sulle tradizioni è una parte del processo di assimilazione. Questo si applica anche – sostiene – a quei circa 300mila di loro che non sono riconosciuti come ebrei dalla legge israeliana. La legge si basa sulla definizione ortodossa secondo cui è ebreo chi è nato da madre ebrea o chi si è convertito all’ebraismo. Ha tuttavia permesso a queste persone di emigrare e di ottenere immediatamente la cittadinanza israeliana se si trattava di figli, nipoti o coniugi di ebrei a pieno titolo. Alcuni dei più giovani fanno il percorso di conversione durante il servizio militare ma la maggioranza degli adulti non può convertirsi, e non lo vuole fare, perché il Rabbinato centrale, la massima autorità su questioni religiose, insiste che i convertiti devono poi adottare uno stile di vita ortodosso.
“Anche loro però vogliono integrarsi, e con successo, nella società israeliana – dice Yakov Jacobson – Non possono sposare degli ebrei a pieno titolo in Israele perché il rabbinato ha il monopolio sui matrimoni, allora cosa fanno? Fanno un salto a Cipro e contraggono un matrimonio civile, e questo è legale e accettabile. E odiano i rabbini. Ma odiare i rabbini è parte integrante della cultura ebraica israeliana. Anche un mucchio di giovani israeliani, ebrei a pieno titolo, odiano i rabbini, e si sposano a Cipro. Odiare il rabbinato è parte di questo processo di assimilazione nella cultura e nella società israeliana”.
La ragione principale per odiare i rabbini, però, è la leva. I 400 studenti di Talmud che Ben Gurion esentò dal fare il servizio militare sono aumentati di numero, fino a diventare 110mila uomini haredi che non hanno prestato servizio né nell’esercito né nella riserva. Ogni anno altri 6mila studenti di una yeshiva haredi (seminario talmudico) compiono 18 anni e si aggiungono alla massa di coloro che evitano la leva. È un numero che rappresenta già il 13 per cento di quel gruppo d’età di giovani maschi ebrei (gli arabo israeliani sono esentati dal servizio militare) e crescerà in fretta: tra i bambini ebrei in età scolare circa il 26 per cento dei primini è haredi. Le loro scuole sono focalizzate sull’apprendimento religioso e anche le materie di base come la matematica e l’inglese ricevono scarsa attenzione.
Con le leggi vigenti evitare la leva diventa uno stile di vita perché chi lo fa deve restare a studiare a tempo pieno nella sua yeshiva e non può lavorare. La disoccupazione fra gli uomini haredi supera il 60 cento. Il resto della popolazione deve reggere sulle proprie spalle anche il carico di tasse che serve a supportare la comunità haredi, che è sempre più povera.
Ma forse non più per molto. La Corte suprema israeliana ha deliberato che la discriminazione sull’obbligo di leva è incostituzionale e ha dato tempo al governo fino alla fine di questo mese per formulare una legislazione nuova e più equa. Un comitato parlamentare, boicottato dai partiti haredi ha formulato una proposta di nuova legislazione sotto la quale solo i migliori studenti di Talmud – che dovrebbero essere selezionati dai decani delle yeshivot – continuerebbero a ricevere un generoso aiuto dallo stato e resterebbero esenti.

Addio alla vita contemplativa

Per Netanyahu, ansioso di non danneggiare la sua lunga storia di alleanza con i haredim, si tratta di un piano troppo radicale. Vorrebbe un processo di arruolamento degli haredim più gentile, più graduale, che duri una decina d’anni. Questo gli ha fatto perdere la settimana scorsa l’appoggio di Kadima, il maggiore partito d’opposizione, che si era unito al governo in maggio e che se ne è andato bruscamente il 17 luglio, accusandolo di inchinarsi ai haredim.
Quali che siano i tempi scelti, una qualche forma di leva anche per i haredim è in arrivo. Nell’esercito ci sono già delle unità speciali, haredi-friendly, per coloro – sono pochi ma in costante crescita – che decidono di lasciare la yeshiva e arruolarsi. Si mangia cibo super kasher e non ci sono soldatesse in vista. Un’unità informatica esclusivamente haredi, parte dell’aeronautica militare permette ai genietti del Talmud di mostrare il loro potenziale high-tech.
Per le yeshivot, alcune delle quali sono business familiari molto redditizi, tale riforma significherebbe subire un ridimensionamento drastico. Dietro alle reazioni scandalizzate c’è però anche la risentita consapevolezza che la “società degli studiosi” non può continuare a crescere indefinitamente. Una comunità di 850/900mila persone deve sostenere il proprio peso economico.
Una riforma credibile della leva per i haredi sarebbe un grande passo avanti verso l’eliminazione della frattura laici-religiosi nella società israeliana. Già oggi entrambe le fazioni si stanno lentamente muovendo l’una verso l’altra. Fino a poco fa il giorno di riposo era spesso un giorno di battaglia con i haredim che cercavano di imporre la loro rigida forma di osservanza dello shabbat al resto della popolazione, bloccando le strade e prendendo a sassate i cinema. Ora hanno delle città esclusivamente di haredi, e grandi e omogenei sobborghi, così hanno meno ragioni per interferire con lo stile di vita degli altri. Al contrario, invece, ci sono ora così tanti haredim che il resto della popolazione non può più ignorarli.

The Economist, Special Report: Judaism and the Jews, 28 luglio 2012

(versione italiana di Ada Treves twitter @atrevesmoked)