Qui Trieste – Laboratorio Israele
Come dovrebbe rispondere Israele di fronte all’accusa di essersi appropriata di una Terra non sua? Questa la domanda che abbiamo discusso a Trieste all’incontro “Israele: laboratorio della globalizzazione. Per una nuova comunità”. Dopo un saluto di Davide Belleli, referente del Gruppo sionistico, l’incontro si è modulato col pubblico in maniera appassionata grazie agli interventi di Donatella Di Cesare – della quale uscirà prossimamente un libro sull’argomento – e rav Ariel Haddad: i due relatori sono riusciti a cucire al sionismo, da troppo tempo bisognoso di rinnovamento, un vestito nuovo e assolutamente originale e originario. Come ha spiegato la professoressa Donatella Di Cesare “il sionismo ha conseguito una meta decisiva: la fondazione dello Stato di Israele. Si può dire che – come alcuni affermano – il suo compito sia esaurito? Soprattutto in Israele, dove viene invocata una nuova identità israeliana, molti parlano di postsionismo. Oppure il compito del sionismo va al di là di quella meta di fondare un moderno Stato democratico? In questo contesto si pone la questione della terra. Una delle accuse più gravi che l’antisemitismo e anche il negazionismo muovono agli ebrei nel mondo è quello di essersi appropriati di una terra non loro. Come rispondere?” Cosa c’è a monte dell’accusa di illegittimità dello Stato di Israele? E come mai – ha chiesto rav Haddad – gli ebrei, che nella storia hanno sempre vinto tutte le dispute, sulla questione di Israele non sono ancora riusciti a spiegarsi e di conseguenza, escono sconfitti dal confronto (verbale) con gli altri? Per rispondere bisogna ribaltare le classiche argomentazioni che, benché vere, si sono rivelate fallimentari per questo scopo. Anche se è vero – ha sottolineato Donatella Di Cesare – che storicamente gli ebrei hanno sempre vissuto in Eretz Israel e hanno mantenuto nei secoli un legame con questa Terra, bisogna diventare consapevoli di un’altra cosa: Israele mette in discussione uno dei princìpi cardine dello stato moderno che è quello della autoctonia. La terra secondo la tradizione ebraica, non è la “terra madre” bensì la “terra promessa” verso cui l’ebreo si dirige. Zion – ha spiegato anche il rav – indica nel suo etimo qualcosa in più rispetto a un luogo geografico: Zion significa infatti collina, fortezza o roccaforte e “segno” verso cui l’ebreo guarda e si riconosce. Israele, nella sua esistenza, mostra che nessuno è mai veramente autoctono; tutti siamo sempre “stranieri residenti”; questo modello di cittadinanza, valido più che mai oggi nell’epoca della globalizzazione, dovrebbe essere l’idea a cui altri popoli, stati e nazioni della contemporaneità dovrebbero rifarsi. Israele in questo senso è il laboratorio della globalizzazione e la culla di una nuova comunità che sorge secondo i valori ebraici. L’incontro fa parte del ciclo “Quale etica ebraica”, inaugurato quest’anno nella comunità triestina e organizzato dal Dipartimento Educazione e Cultura Ucei in collaborazione con la Comunità ebraica, il Gruppo Sionistico e l’Adei-Wizo di Trieste: uno spazio di riflessione aperto, che ha lo scopo di affrontare temi di attualità relativi alla tradizione ebraica mostrandone la portata universale.
Ilana Bahbout
(24 febbraio 2013)