Israele – Due stati per un popolo

La trattativa per la composizione del nuovo Governo israeliano si sta rivelando lunga e complessa. Benjamin Netanyahu ha a disposizione 28 giorni per completare la nuova coalizione, rinnovabili per altri 14 giorni. Se al termine dei 42 giorni l’opera non sarà completata, l’incarico verrà affidato a qualcun altro. Nel frattempo il governo uscente di Netanyahu rimane in carica per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione. Che è come dire la paralisi perché il bilancio dello Stato (sul quale è caduto il governo uscente, causando un anticipo elettorale di dieci mesi) deve ancora assere approvato. E nel bilancio si compendiano tutti i problemi e tutti gli interessi. La nuova Knesset è come un rompicapo i cui elementi sono noti, coi loro pregi e difetti e le loro idiosincrasie, ma in cui è molto difficile far combaciare tutti i pezzi in un insieme coerente e stabile. Viene in mente la storia del barcaiolo che doveva far attraversare il fiume a un lupo, a una capra e a dei cavoli. Ma sulla barca, oltre a lui, c’era posto solo per due dei tre elementi. E per ovvi motivi non poteva mai lasciare il lupo insieme alla capra, o la capra insieme ai cavoli. Finché con vari trasbordi, la cui sequela qui non ripeteremo, l’operazione riuscí. Il problema è che in Israele il numero di lupi, di capre e di cavoli – ovviamente come metafora politica – è ben superiore ai tre della favoletta. Come naturale conseguenza di una società complessa e articolata, ma anche di una legge elettorale proporzionale pura con bassa soglia di entrata, oggi anacronistica e autolesiva, il frazionamento ideologico contrappone numerosi partiti che possono collaborare su certi temi ma sono incompatibili su altri. L’abilità del primo ministro designato consiste nel trovare le formule di compromesso che permettano una pacifica convivenza fra i sostenitori di tesi opposte su ogni aspetto possibile della problematica politica – se lo saprà fare. I grandi temi del paese evolvono costantemente sotto l’impulso di una società dinamica e innovatrice, ma anche ben consapevole e gelosa della continuità delle proprie storiche identità culturali. Al primo posto, certo, bisogna vivere. Ma subito dopo viene l’improrogabile esigenza di una più equa distribuzione del carico sociale. Per cominciare, l’indice di concentrazione dei redditi in Israele è divenuto uno dei più alti fra i paesi sviluppati (fanno peggio il Messico e gli Stati Uniti). Ovviamente la sperequazione dei redditi riflette la frequenza di partecipazione alla forza di lavoro. La scarsa ricerca di impiego degli uomini haredim e delle donne musulmane è la causa principale (anche se non l’unica) di una diffusa povertà primaria che riflette loro precise scelte culturali. Ma Israele è uno Stato sociale moderno e compensa in parte la sperequazione con forti trasferimenti di fondi ai bisognosi. Per quei haredim che lo volessero, poi, la possibilità d’impiego è limitata dall’istruzione esclusivamente toranít (ebraica tradizionale) acquisita, che li prepara essenzialmente solo all’insegnamento delle materie ebraiche (il discorso è un pò diverso per le donne musulmane che oggi ottengono un livello d’istruzione discreto ma poi vengono limitate dalle norme culturalmente discriminatorie della loro comunità). La forte aliquota di haredim che continua gli studi in età adulta matura produce forse gratificazione spirituale ma non reddito, e deve quindi essere sovvenzionata dal reddito prodotto dagli altri. Il primo fronte da migliorare è quindi quello dell’inserimento nell’istruzione dei haredim di un modulo di cultura generale (storia ebraica, matematica, inglese) che li renda più autonomi nel mondo del lavoro. Il dibattito sul servizio militare viene solamente al secondo posto e ha due facce. La prima, meno dibattuta, riguarda la funzione di rete sociale che si crea fra chi è stato nell’esercito. Le forze armate – a parte la loro funzione statutoria di provvedere alla sicurezza – sono un grande calderone di acculturazione, da cui derivano innegabili benefici più tardi nella vita civile. Chi ne è stato esente non gode di questi vantaggi latenti. Ma non si può ignorare la seconda e più dibattuta faccia dell’esenzione dal servizio militare: quello della solidarietà nazionale. Recentemente in un dibattito televisivo preelettorale, un esponente haredi nel perorare la causa dell’esenzione, si è fatto sfuggire la seguente inquietante frase: “Noi haredim siamo come gli arabi (pure militesenti): riconosciamo lo Stato d’Israele, ma fino a un certo punto”. Il rifiuto – che significa escludersi dalla nazione – si è esteso finora anche alla possibilità di un servizio civile in cui i giovani in età di servire prestino un po’ di tempo alla loro propria comunità nelle mansioni più diverse. Alle ultime elezioni il messaggio inequivocabile del voto è stato dunque: cosí non si può proseguire. Paradossalmente il partito di Yair Lapid, paradigma della borghesia istruita e non proprio indigente ha echeggiato lo slogan marxista: A ognuno secondo le sue necessità, sì, ma da ognuno secondo le sue capacità. Non più parassitismo. Dal mondo haredi si replica che il culto di Hashem produce benefici difensivi non inferiori a quelli recati dalle forze armate, e quindi il dibattito resta al punto di stallo. Il problema è che Netanyahu proclama da anni che i suoi alleati naturali sono i haredim. E ora si trova a dover formare il nuovo governo con un buco di un quarto di milione di voti persi a favore della tesi avversa. Tutto ciò è legato attraverso meccanismi trasparenti e ineluttabili con le politiche nei confronti dei palestinesi e della comunità internazionale. La prima preoccupazione è di ordine interno. L’attuale distribuzione delle risorse e degli investimenti pubblici protegge certe zone, come la Giudea e la Samaria, ma ne penalizza gravemente altre come la Galilea e il Neghev. Se è giusto costruire alloggio altamente sussidiato per far fronte all’incremento naturale ebraico in Cisgiordania, è altrettanto giusto costruire per l’incremento naturale nel resto del paese, dove invece i prezzi dell’alloggio sono proibitivi. Inoltre Israele può, sí, contare sulle proprie grandi energie e risorse ma alla lunga non può ignorare di appartenere a un condominio internazionale in cui le forniture militari e le esportazioni dipendono anche dalla volontà della controparte. La presunta autarchia che alcuni vorrebbero instaurare finisce per incidere anche sulle norme dello Stato civile. Chi pensa di mantenere milioni di palestinesi in una situazione subordinata senza diritto di voto promuove uno Stato d’Israele non democratico, sempre più emarginato dalla comunità globale. Anche su questo il voto del 22 gennaio ha dato un’indicazione forte, seppure non unanime. Nel suo discorso di accettazione del mandato, Netanyahu ha dovuto dire la parola pace cinque volte. Se la pace è difficile da fare, Israele salvi per lo meno l’immagine. Bibi può tentare di fare un governo inclusivo di tutte le idee più diverse, che accontenterà un poco tutti ma significherà la paralisi totale, oppure un governo più ristretto dal programma più focalizzato, che susciterà molta soddisfazione da parte di alcuni e vibrate proteste da parte di altri. Gli elettori hanno anche chiesto un rinnovo dei quadri dirigenti, ma Bibi aveva promesso ministeri e prebende a molti, forse troppi, dei suoi associati nel governo uscente. Con Habayt Hayehudi dentro, sarà difficile smuovere molto sul terreno delle trattative politiche. Con i haredim dentro, sarà difficile procedere sul terreno delle riforme sociali. Con Yesh Atid dentro, sarà impossibile non procedere sullo stesso terreno. E chi rimarrà fuori attuerà un’opposizione accanita che renderà difficile l’azione di un governo dai numeri appena sufficienti. Qui si vedrà la reale natura del primo ministro designato: Bibi l’ideologo, quello dello status quo? O Bibi il pragmatico, quello che sa far quadrare il cerchio? Scattista da primato, o anonimo staffettista? Personalmente, onestamente, non saprei.

Sergio Della Pergola, Università ebraica di Gerusalemme,
Pagine Ebraiche, marzo 2013

(25 febbraio 2013)