Il figlio dell’altra – Una prospettiva di futuro

Il film Il figlio dell’altra della regista franco-israeliana Lorraine Levy affronta il tema dei rapporti tra israeliani e palestinesi in Medio Oriente attraverso la narrazione di un evento drammatico. Si tratta dello scambio in culla di due bambini avvenuto in un ospedale di Haifa in occasione di una situazione di emergenza bellica. Un bambino figlio di genitori arabi viene scambiato con il figlio di una coppia israeliana. Dello scambio si viene a sapere quando il giovane israeliano deve affrontare il servizio militare che richiede analisi di laboratorio, quelle del gruppo sanguigno, risultate discordanti da quello dei genitori.

Il dramma viene vissuto in modo diverso, ma ugualmente sentito dalle due famiglie, divise da modi divergenti di concepire l’identità ebraica da una parte ed arabo-palestinese dall’altra. Nella famiglia araba domina il sentimento di ostilità antiisraeliana per il senso di usurpazione della terra e quindi di inimicizia profonda nei riguardi degli ebrei, considerati oppressori. Nella famiglia israeliana la non ebraicità genetica del figlio attribuito casualmente provoca una crisi di identità, specie nella figura del padre, capitano dell’esercito di Israele, che considera i palestinesi come dei diversi, comunque nemici da combattere. La naturale curiosità per l’altro che pure esiste viene sovrastata dalla diffidenza reciproca.

Nel film vi è la figura del rabbino che, con voce pur soffice ed amichevole, non sa trovare una via di uscita accettabile al dramma, contribuendo al contrario ad aggravare la situazione vissuta dal ragazzo, fin dalla nascita educato da ebreo con una compiuta educazione ricca di studi di Torah. Il rabbino, per la sua mentalità ultra-ortodossa, non è in grado di accogliere il giovane in difficoltà, rifiutando di accettarne la sua ebraicità in quanto il dna è ovviamente arabo. È un vero pugno nello stomaco per lo spettatore, ignaro del problema, che non può non considerare quella del rabbino una posizione disumana, ma che fornisce, sia pure in modo forse provocatorio, il sapore dei contrasti tra mondo ortodosso e quello laico della società israeliana.

L’iniziativa del riavvicinamento tra le due famiglie è affidata efficacemente alle due madri, quella israeliana e quella palestinese, vere protagoniste del film, che dimostrano di sapere gestire e anche smussare i contrasti. Nella loro capacità di comprendere e di tentare di superare la situazione di crisi le madri riescono in parte a coinvolgere i due uomini, molto meno flessibili, per motivi pur comprensibili, nel cercare uno sbocco umanitario di dialogo che prevalga sull’ostilità e la chiusura delle loro posizioni, forse anche legata ad una perdurante virile immaturità. Un plauso quindi alla grande capacità di dialogo della donna in generale, artefice di accettazione e dialogo. Efficace è sul piano dei sentimenti la scena del disgelo nella famiglia araba quando il giovane di nascita araba, ma educato ebraicamente, canta una popolare canzone palestinese creando una decisiva sintonia emotiva. Il rapporto tra i due giovani si cementa nelle comuni esperienze di vita quotidiana, che sembrano dare una prospettiva futura di coesistenza pacifica.

Giorgio Coen

(27 maggio 2013)