Israele – Rabbinato con il fiato sospeso
Sono tanti i piani che si intrecciano nelle ormai imminenti elezioni per il rinnovo delle cariche di rabbino capo ashkenazita e sefardita d’Israele, in programma per giugno. Al centro del dibattito non sono più infatti semplicemente i nomi dei successori di rav Yona Metzger e rav Shlomo Amar. In gioco è l’intera istituzione del Rabbinato centrale, con alcune proposte di legge per riformare innanzitutto le regole delle elezioni, ma anche altri istituti, tra cui il sistema matrimoniale. Senza contare l’aspetto dei rapporti fra religione e politica, che sin dall’indomani della formazione del governo ha visto la creazione parimenti di alleanze e fratture trasversali agli schieramenti: da una parte la componente che si rifa a un ebraismo Modern Orthodox (datì leumi, sionista religioso, secondo l’espressione ebraica) è sempre più spaccata tra chi desidera ridimensionare il peso politico acquisito dall’ebraismo haredi e chi invece vuole cercare una posizione di compromesso, magari con la nomina di un rabbino datì che non gli risulti comunque sgradito; parallelamente sono le formazioni haredim, e in particolare il sefardita Shas, a giocare le proprie carte per tornare a far sentire la propria voce sul governo israeliano, da cui, per la prima volta da anni, sono rimasti fuori. Il necessario punto di partenza è ancora una volta la Chief Rabbinate Law, la legge che regola il Rabbinato centrale, su cui la Knesset ha lavorato per apportare modifiche fondamentali. Innanzitutto quella di aumentare da 150 a 200 i componenti dell’assemblea elettorale, accrescendo la quota dei membri espressione del pubblico in precedenza fissata a 80 a fronte dei 70 tra rabbini e dayanim. Ma l’elemento più significativo in questo senso, va senz’altro nella previsione che stabilisce in almeno il 20 per cento la presenza femminile all’interno di questo comitato, prima praticamente nulla. Un passaggio volto a garantire una maggiore rappresentatività della società in una istituzione con cui i cittadini israeliani di religione ebraica devono necessariamente, o quasi, avere tutti a che fare. Diversa la natura di quella che è ormai nota come Legge Amar, per consentire al rabbino capo di ricoprire l’incarico per più di un mandato e che permetterebbe a rav Amar di rimanere ancora dieci anni (una legge di cui potrebbe beneficiare anche rav Yisrael Meir Lau, già rabbino capo ashkenazita dal 1993 al 2003, che avrebbe espresso un interesse alla rielezione). Una delle ipotesi più in auge è quella di un accordo per mantenere rav Amar al Rabbinato sefardita, in cambio della nomina di un rabbino sionista religioso a quello ashkenazita. E se fino a un certo punto sembrava che ad avere in tasca la vittoria fosse rav David Stav, guida della organizzazione Modern Orthodox progressista Tzohar, che da anni si batte per riformare l’istituzione del Rabbinato allo scopo di avvicinarlo alla società israeliana, nelle ultime settimane si è fatta strada invece la candidatura di rav Yaakov Ariel, anch’egli parte di Tzohar, ma considerato un conservatore e in forte rivalità con Stav. E poiché con i suoi 76 anni rav Ariel si poneva al di fuori dei limiti di età per la nomina previsti dalla legge (70), alla riforma Amar si dovrebbe aggiungere anche un’altra legge che preveda di innalzare questi limiti. Perno delle dinamiche politiche sembra essere in questo momento il partito di ultradestra Habayt Ha-yehudì, punto di riferimento politico degli abitanti degli insediamenti da una parte, ma anche formazione di stampo dichiaratamente Modern Orthodox dall’altra. Il suo leader Naftali Bennett, ricopre l’incarico di ministro degli Affari religiosi (ed è tra l’altro responsabile della nomina di molti grandi elettori) e sembra trovarsi al bivio. Se decidesse di offrire il suo supporto a rav Stav, dichiaratamente sostenuto anche dai partner di coalizione Hatnua, Yisrael Beytenu e soprattutto Yesh Atid, Bennett assegnerebbe probabilmente un duro colpo non soltanto ai suoi rapporti con i partiti haredim, ma anche con una larga fetta del suo partito. Se invece dovesse optare per rav Ariel, potrebbe riavvicinarsi allo Shas (Amar-Ariel rappresenta anche la coppia di candidati ufficialmente sostenuta dal suo leader spirituale, il novantaduenne rav Ovadia Yosef ), ma rischierebbe di mettere a repentaglio un’alleanza, quella con la formazione centrista di Yair Lapid, grazie a cui tanto Habayit Hayehudì quanto Yesh Atid sono stati in grado di capitalizzare al massimo il risultato elettorale. Tensioni che sono state messe in luce dalla stampa israeliana (se il Jerusalem Post ha parlato di “confusione”, Haaretz provocatoriamente ha usato addirittura il termine di “guerra santa” all’interno del partito) e che sono state testimoniate anche dall’andamento del primo passaggio alla Knesset della legge a proposito dell’allargamento dell’assemblea dei grandi elettori: nonostante il sostegno ufficiale di Habayit Hayehudì, che aveva lavorato alla proposta in commissione con gli alleati di coalizione e in particolare con il ministro dell’istruzione rav Shai Piron di Yesh Atid, solo tre deputati su 12 hanno votato a favore (astenuti gli altri). Nel frattempo, Bennett lavora a una proposta di legge, la Tzohar Law, per riformare appunto il sistema matrimoniale, uno dei pilastri del rabbinato centrale maggiormente criticato. Tanti dunque i temi in gioco. Che non lasciano dubbi sul fatto che queste nuove elezioni israeliane saranno per il paese rilevanti almeno quanto quelle politiche dello scorso gennaio.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche giugno 2013
(28 maggio 2013)