Tea for two – L’amore ai tempi di Rachel

Più o meno dai sei anni ho iniziato una grande storia d’amore: quella con l’Amore. Una frase che può sembrare piuttosto retorica e zuccherina, ma che è totalmente sincera. Devo dire che nonostante siano passati quasi diciasette anni, il concetto è più o meno sempre lo stesso. Ho cambiato luogo, fattura degli abiti, sottofondo ma il succo è quello: uno di quei banali incontri-scontro con fogli volano, lui che si sbaglia e prende la mia agenda e poi ci incontriamo per rimediare all’incidente. Io, ovviamente, non sono mai riuscita a gestire con costanza un’agenda ed il lui ideale, ovviamente, è passato dall’essere un seienne con la faccia vagamente da backstreet boy a un intellettualoide con la montatura degli occhiali tartarugata. Ho infierito per tutto questo tempo con materiale esplosivo: commedie romantiche come Love actually, Bridget Jones e Notting Hill. E sono stata decisamente una Julia Roberts da Matrimonio del mio migliore amico: tu rincorri lui che rincorre l’altra, ma chi rincorre te (mondo crudele, oserei aggiungere)? Non c’è poi niente di meglio per una dodicenne di quei film con la trasformazione; lei viene affidata a un make up artist che la rinnova e conquista il bellone di turno capendo poi che chi è vincente al liceo quasi sempre ha un tracollo nella vita reale. Ho condito il tutto con il best of di Laura Pausini, i libri di Sophie Kinsella e le lacrime di coccodrillo da fifona. Insomma, sono il risultato piuttosto ovvio di una formazione tipicamente occidentale, con il cofanetto di Sex and the city nascosto tra il meridiano di Svevo e quello di Montale. Ascolto Diana Krall che canta The boy from Ipanema e mi viene da piangere. Per non parlare di quella canaglia di Michael Bublè quando intona Always on my mind. Provo pena per Orlando quando vede su un tronco inciso il nome dell’amata Angelica e di Medoro il belloccio, e sì, ho letto e sospirato anche per la quadrilogia sui vampiri romantici e un po’ mormoni. Tutto questa fiducia per il futuro radioso si è infranta verso i diciotto anni quando al tema di maturità sull’amore mi sono scontrata con un concetto prima totalmente alieno: il cinismo. Mentre scrivevo del grande complotto sull’amore (esso non era niente altro che un bieco mito letterario), ho realizzato che quelle parole in fila puzzavano di risentimento, disperazione e anche un po’ di cinismo appunto, ma cosa è il cinismo se non l’altra faccia della disperazione? Poi mi sono fatta la classica domanda da un milione di dollari: come si concilia l’ebraismo con una ragazza affetta da romanticume da pattume rosa? Cosa devo rispondere a me stessa mentre faccio l’ardito gesto di andare a una festa organizzata con il terrore di passare per quella che Bridget chiamava Penny-raccatta-mariti? Conosci persone all’università e hai paura, vai a delle feste acquario ed hai il terrore e presto forse ti spunteranno cinque o sei capelli bianchi. Non so se voglio davvero una famiglia, so che non voglio essere Penny-raccatta-mariti e soprattutto sorrido salutando l’idillio dello scontro con scambio di agenda. Sono davvero pronta a diventare una madre d’Israel o devo rispolverare il best of di Laura Pausini e sentirlo un’altra volta? E poi perché Laura Pausini si strugge convinta che gli altri si struggano per lei (e sale il brivido, oramai anche lei si è sistemata, cosa aspetti?)? Ma forse la risposta che più spaventa è l’ipotesi di aver trovato come ottimo schermo il problema di matrimonio ebraico si, no, forse, per un motivo piuttosto individuale: il terrore di cantare canzoni italiane con un giornale arrotolato in mano, l’agoscia del barattolo di gelato da mangiare davanti alla maratona di Girls o Mad Men, i cambiamenti di capelli rivoluzionari alla Mia Farrow per darci un taglio a livello universale. E soprattutto la consapevolezza di andare alle feste acquario e di non poter scrivere in un curriculum ideale di saper cucinare cous cous e moufroume e di essere una maga nel confezionare kippoth all’uncinetto. Ma alla fine le lamentazioni da ‘Ahi come troverò un bravo marito ebreo’, non sono che una metafora che coinvolge quasi tutto il popolo femminile? Cous cous da cucinare per Shabbath compreso.

Rachel Silvera, studentessa

(8 luglio 2013)