Berlino – “Tutta la verità” finisce in vetrina
“Qual è la domanda che ti è stata rivolta più spesso?”. “Questa”. “Ah… e… poi…?”. Una vetrina è fatta per osservare, e questo è vero in entrambe le direzioni. Ho realizzato questo fatto per la prima volta al Museo ebraico di Berlino: esposto in una scatola di vetro come esemplare vivente di ebreo mi sono divertito a osservare i miei osservatori. I visitatori della mostra “Tutta la verità: ciò che avete sempre voluto sapere sugli ebrei” sembrano divertiti dalla provocazione dei curatori. Infatti, fra i pannelli esplicativi, le fotografie e i filmati è stato scelto di esibire anche un ebreo vero, in carne e ossa: lo si può guardare da vicino (ma non toccare), si può anche provare a comunicare con lui. In fondo si tratta di portare alle sue estreme conseguenze il principio che sta alla base di tutti gli allestimenti museali più moderni: l’interattività. Con gli ebrei è possibile perfino interagire. La mostra si propone di raccontare la realtà dell’ebraismo attuale a partire dai luoghi comuni che lo riguardano. La peculiarità sta nel fatto che due piani sono abilmente sovrapposti, confusi l’uno con l’altro. Questo produce un effetto di ambiguità, per cui il visitatore è portato a chiedersi se si tratta di un’esposizione seria o ironica, o se il suo oggetto sono davvero gli ebrei oppure i pregiudizi su di loro. Del gioco dell’ambiguità è ovviamente parte integrante la teca di vetro con dentro l’ebreo vero. Da una parte viene stuzzicato il senso del not politically correct (il che ha sollevato anche qualche malumore: “perché non gli mettono in mano anche una banana già che ci sono”, ha commentato piccato il segretario del Consiglio centrale degli ebrei in Germania Stephan Kramer). D’altra parte si intende dare a molti visitatori l’occasione di confrontarsi per la prima volta a quattr’occhi con un ebreo. Non è raro infatti, per un giovane tedesco, per esempio, che tutti i contatti che ha avuto con l’ebraismo e gli ebrei siano avvenuti attraverso i libri di storia e i film di Hollywood. “Se l’idea era di mostrare provocatoriamente un ebreo come un oggetto – fa notare Naomi Wonnenberg al termine della sua esposizione – allora non è stata fatta fino in fondo”. La teca di vetro ha infatti un’apertura attraverso la quale si può comodamente chiacchierare, cosa che normalmente con gli oggetti non avviene, e nemmeno con gli animali allo zoo. I visitatori vengono anche incoraggiati ad avvicinarsi (gli ebrei non mordono mica) e a fare delle domande. Non sono pochi quelli che, un po’ divertiti dall’insolita circostanza – rivolgere la parola a un ebreo che siede in vetrina proprio in quanto tale – vengono a interpellarmi. Ciò che noto in molti di coloro che vincono la timidezza è una certa sufficienza: hanno già capito che si tratta di una provocazione, comprendono e approvano l’idea di far conoscere un ebreo a quelli – gli altri, ovvio – che di ebraismo non sanno nulla. È come se volessero strizzarmi l’occhio e dirmi: “ehi, ho capito il giochino, ma con me non attacca, io ne so già parecchio… come dire, ho tanti amici ebrei, non mi stupisco mica più, io”. E allora cercano di mostrarsi non tanto interessati a me, che apparirebbe così provinciale, piuttosto alle reazioni degli altri visitatori. Non hanno bisogno di approfittare dell’occasione di incontrare un ebreo, ne sanno già abbastanza. Ben più interessante è improvvisarsi sociologi, studiosi dei comportamenti altrui. Così forse si riesce anche a denunciare i pregiudizi degli altri e deriderne l’ignoranza, compiaciuti nello stesso tempo di mostrare, per contrasto, la propria urbanità. Dopo diverse volte in cui mi sento ripetere la stessa domanda, un po’ annoiato, comincio a rispondere in maniera vagamente spigolosa. “Qual è la domanda che ti è stata rivolta più spesso?”, “Questa”. Molti, sorpresi, non sapevano più come proseguire la conversazione, provavano a farsi venire in mente qualcosa ma non avevano proprio niente da chiedermi. All’ingresso della mostra, a caratteri cubitali, si racconta di quel rebbe cui venne chiesto perché gli ebrei controbattono sempre a una domanda con un’altra domanda, e che rispose: “Perché no?”. Il segreto della sapienza ebraica sta qui: saper porre domande opportune.
Manuel Disegni, Pagine Ebraiche agosto 2013
(5 agosto 2013)