Il puzzle mediorientale
Quale sarà la configurazione geopolitica che uscirà dal travaglio che almeno da due anni accompagna l’intera area mediorientale? Come si risolveranno, e a favore di chi, le numerose crisi regionali che, a intensità diverse, stanno tuttavia ridisegnando la mappa dei poteri in diversi paesi? Non di meno, quali sono gli sviluppi prevedibili nel quadro che stiamo osservando? Sono quesiti leciti, e ad essi altri se ne possono affiancare, ma faticano a trovare adeguate risposte. Di fatto quell’insieme di fenomeni che sono stati identificati con la cosiddetta «primavera araba» sono ben lontani dall’avere esaurito la loro carica tellurica. A partire dai moti che si sono susseguiti tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 in tutta l’area del Mediterraneo, per poi proseguire successivamente, arrivando ad oggi, è come se il tappo della bottiglia fosse saltato definitivamente. Quel che da essi può ancora venire fuori, oltre che la schiuma della rabbia popolare, è quindi imprevedibile. Le matrici delle proteste sono molteplici e vano sarebbe il cercare qualcuno che tiri i fili delle medesime, a mo’ di grande burattinaio. Le crisi hanno infatti assunto fisionomia diversa, identificando come comune denominatore la richiesta di maggiore libertà politica e di sovranità economica, quest’ultima in grado di garantire il soddisfacimento dei bisogni elementari della popolazione. Sta di fatto, tuttavia, che sono state tutte connotate dalla definitiva delegittimazione dei poteri costituiti, da quelle monarchie repubblicane sotto le quali organizzazioni clanici, coalizioni di interessi e blocchi economico-sociali nascondevano il particolarismo di cui erano portatori rivestendolo di un falso egualitarismo. Nello spazio apparentemente vuoto, determinatosi con la rovina di una parte dei gruppi dirigenti, soprattutto quelli di origine laica, si sono mossi i movimenti islamisti, quelli meglio strutturati perché di più antico insediamento tra le collettività e, per alcuni aspetti, maggiormente capaci di mobilitarle sotto l’egida di slogan e parole d’ordine interclassiste. Tuttavia, malgrado il loro attivismo, hanno faticato a capitalizzare per sé gli effetti delle crisi. Da esse, infatti, non sono derivati nuovi assetti poiché nessuno degli attori in campo ha rivelato la capacità di prevalere definitivamente sugli altri. Piuttosto, in più casi si è configurato e ripetuto uno scenario di precaria stabilità tra gruppi contrapposti, fatto che in alcuni casi si è tradotto nella perduranza di una guerra civile dichiarata e apparentemente inesauribile, come in Siria; in altri, nel ripetersi di tensioni seguite da momenti di apparente tranquillità, ai quali sono poi di nuovo subentrate turbolenze, come in Egitto oppure, ed è il terzo caso, con la divisione dei territori precedentemente riuniti sotto un’unica sovranità, ed è ciò che è accaduto in Libia. In tutte le situazioni la nota dominante, a tutt’oggi, è la precarietà degli assetti vigenti. Precarietà e stallo, in attesa che in ognuna delle aree di crisi subentri, prima o poi, un qualche elemento, interno o esterno, a fare da detonatore verso nuove violenze. Sul piano del giudizio storico, se si volesse raccogliere l’insieme degli eventi che sono accaduti in questi ultimi due anni potremmo dire che essi sono accomunati dal segnare la definitiva conclusione dell’età della decolonizzazione quando, al sistema dei mandati o dei domini diretti, si erano succedute le indipendenze nazionali e la costituzione di Stati, questi ultimi espressione, più o meno dichiarata, della volontà delle popolazioni locali. Un lungo periodo, in parte già iniziato con il primo dopoguerra, e che si è trascinato per quasi tutto il Novecento. Di fatto i moti della «primavera araba» hanno sancito definitivamente l’ inattendibilità delle élite autoctone. Non di meno, hanno rivelato come la democrazia – in quanto sistema politico complesso, partecipato, consensuale, basato sul coordinamento con l’evoluzione economica, sociale e culturale di ogni paese – in troppi casi sia poco più di una chimera. Ad onor del vero non si tratta di una sorpresa. Le radici della crisi sono lunghe e ramificate, trovando nel 1989 un passaggio importante, anche se non esclusivo. Il sistema dei poteri mediorientali, per come l’abbiamo conosciuto, era anche il prodotto del bipolarismo, dentro il quale giocava le sue carte. Il venire meno di questo grande contenitore, dove il bilanciamento tra la presenza americana e quella sovietica faceva sì che ci potesse spingere fino a certe soglie, impediti però ad oltrepassarle, ha aperto le cateratte ad un mutamento tumultuoso e senza un profilo politico chiaro. In tale fenomeno entrano in gioco fattori come l’oramai appalesata inanità americana, che pur spendendo ancora qualche carta nello stanco rituale del «processo di pace» tra Israele e i territori dell’Autonomia palestinese, già da tempo ha tirato i remi in barca ma anche e soprattutto l’impatto di lungo periodo, ancora tutto da misurare, della globalizzazione finanziaria ed economica. In questo secondo caso la crisi delle sovranità nazionali, che riguarda non di meno l’Occidente europeo, si ibrida con le violente diseguaglianze che attraversano da sempre quei paesi. Un caso da manuale è l’Egitto del dopo Mubarak, dove tre quarti della popolazione si trova in una oggettiva condizione di povertà. Spinge poi ad esacerbare il tono del confronto, che tuttavia rivela di essere acefalo, senza respiro poiché privo di qualsiasi progetto che non sia la protesta quotidiana, l’elemento demografico. Sono cose risapute ma è bene ripeterle: in società dove la maggioranza della popolazione è giovane, se non giovanissima, la scarsità di lavoro e la mancanza di reddito non può che fare da moltiplicatore delle tensioni. La valvola dell’emigrazione, abbondantemente utilizzata nei due decenni trascorsi – ed in parte incentivata dai governi locali come strumento per attenuare l’altrimenti formidabile pressione sociale – si rivela oggi assai meno praticabile, a causa dello stato di difficoltà in cui si trovano i paesi ospiti, a partire dall’Europa meridionale. Cosa ne deriverà, allora, da questa situazione? Il destino del Medio Oriente pare legarsi sempre di più a quello di territori a nuovo sviluppo, come l’Africa sub-sahariana. Fermo restando che la regione non è un monolite bensì un insieme di soggetti tra di loro differenziati, quindi destinati a conoscere nel futuro traiettorie plausibilmente diverse. Colpisce tuttavia, a fronte delle grandi mobilitazioni che hanno accompagnato la protesta popolare in molti paesi, la mancanza di obiettivi concreti, almeno sul breve e sul medio periodo. Anche qui l’inanità pare confermarsi come l’elemento più significativo. L’azione politica e la partecipazione sociale sembrano poca cosa davanti alla riconfigurazione di equilibri e assetti ampi, complessi, stratificati le cui origini vanno al di là della stessa area mediorientale. È quindi ancora troppo presto per formulare previsioni attendibili. La situazione, come direbbe qualcuno, è ancora troppo “liquida”.
Claudio Vercelli
(11 agosto 2013)