Sport – Dimitri e Yuri indossano i guantoni
Pensate a un pugile. I nomi che vi verranno in mente probabilmente saranno quelli di Alì, Foreman, Marciano, Tyson. Ora pensate a un pugile ebreo. Se non siete addetti ai lavori, l’elenco rimarrà una pagina bianca. Maxi Rosenbloom, Benny Leonard o Barney Ross non vi diranno niente, forse qualcosa vi suggerirà Ted Kid Lewis (al secolo Gershon Mendeloff ). In generale il binomio pugilato – ebraismo non suona propriamente usuale. Eppure dai primi del Novecento agli anni Quaranta del secolo scorso, molti ebrei si cimentavano nella nobile arte con eccellenti risultati: furono decine i pugili, cresciuti nei quartieri ebraici di New York, San Francisco, Philadelphia che si affermarono a livello mondiale, fregiandosi del titolo di campioni. Il ring per molti era il simbolo del riscatto sociale, la possibilità per affermarsi in un mondo che altrimenti li ignorava o peggio discriminava. Non è un caso se a incrociare i guantoni spesso si trovassero le varie componenti dell’immigrazione americana dell’epoca: ebrei, italiani, irlandesi su tutti. Poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, maggiori possibilità si aprirono a quella fetta di società che prima faticava ad emergere. E la tradizione pugilistica cambiò i suoi protagonisti, rimanendo orfana di boxeur di livello provenienti dalla realtà ebraica. A distanza di decenni da quell’età dell’oro, una piccola finestra si è riaperta in questi ultimi anni grazie a due atleti con una storia di immigrazione alle spalle. Yuri Foreman e Dimitri Salita, rispettivamente di origine bielorussa e ucraina, hanno riportato alla luce l’intreccio tra guantoni ed ebraismo. Entrambi ebrei ortodossi, entrambi classe 1982 nonché formatisi nelle palestre di New York da adolescenti, entrambi hanno ridato smalto a una tradizione. Foreman, passaporto israeliano, conosciuto anche come “il pugile rabbino” – ha intrapreso gli studi per ottenere il titolo e presto dovrebbe concludere il suo percorso – è arrivato fino in cima, vincendo nel 2009 il titolo dei pesi superwelter. Salita, soprannominato “la Stella di David”, ha al suo attivo 35 incontri da professionista, di cui 33 vinti e 17 per ko. Di Shabbat non combattono. Considerano l’ebraismo, il rispetto delle mitzvot, un punto saldo delle loro vite, un aiuto per mantenere l’equilibrio nella solitudine del ring. “Se volete combattere contro di me – ha dichiarato Salita – dovrete aspettare che il sole sia calato e in cielo siano apparse le stelle”. Quando sei di fronte all’avversario, al suono della campanella, tutto è letteralmente nelle tue mani e la concentrazione diventa indispensabile. Una concentrazione che, almeno secondo Salita e Foreman, è possibile raggiungere grazie alla preghiera. Basta una disattenzione per mettere a rischio l’intero match, guardia alta, occhi fissi sull’avversario, movimento di gambe. Il pugilato non fa sconti. Prendendola con ironia si potrebbe citare il pugile inglese Alan Minter che disse: “Certo ci sono stati incidenti e morti nella boxe, ma niente di serio”. Chi ha fame, chi ha la capacità di stringere i denti, oltre alla tecnica, emerge più facilmente. Forse per questo nel corso della storia ebrei, italiani, poi afroamericani e ispanici hanno segnato la storia di questo sport. Un esempio di caparbietà è proprio Foreman – cognome evocativo ma che nulla ha a che fare con il Foreman che sfidò Alì nell’epico incontro in Zaire “The Rumble in the Jungle” – che nel 2010 fu costretto a cedere lo scettro di campione all’aggressivo pugile portoricano Miguel Cotto. Era un match che il 30enne bielorusso (naturalizzato israeliano) aveva studiato a fondo: lasciare i primi round a Cotto, far sfogare la sua irruenza giocando soprattutto in difesa, danzando sul ring per evitare il corpo a corpo. Al terzo round qualcosa va storto, il ginocchio destro di Foreman cede. La difficoltà del passato si ripresentano irruenti nel presente: quella è la gamba che a dodici anni Yuri si ruppe andando in bicicletta, è la gamba che il padre, non potendo pagare assistenza sanitaria o medici, cercò di salvare e tutelare con un bendaggio fatto in casa. È il suo punto debole da sempre, un dolore che lo accompagna ma a cui il pugile ormai è abituato. Nonostante la lesione del legamento, Foreman resiste sul ring altri tre round. Combatte su una gamba sola fino a che il giudice non sospende la gara. “Non è più il campione ma da oggi è un vero combattente”, commentano i giornali il giorno dopo l’incontro. “La boxe è un business molto duro e di solito è lo sport di chi è in difficoltà, lo sport degli affamati, una possibile via di uscita. Non pochi ebrei, all’inizio del secolo, rispettavano queste condizioni. In fondo era la minoranza più numerosa”, commentava in una recente intervista Salita, nato ad Odessa ma cresciuto a New York. Con una progressiva integrazione, la componente ebraica newyorkese riuscì in gran parte a liberarsi da questo stato di necessità concentrandosi sulle sfide educative. “Ma per me la boxe – concludeva Salita – è l’unico modo di farcela. In questo sono come tanti altri immigrati”.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, agosto 2013
(13 agosto 2013)