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Forse per deformazione professionale o magari personale, quando leggo una notizia sul Medio Oriente non manco mai di verificare a che punto arriva la parola “Israele”. Un esempio classico è l’intervista con l’allora primo ministro Giulio Andreotti pubblicata dal Corriere della Sera il 15 gennaio 1991, poche ore prima dell’inizio del lancio di missili scud da parte di Saddam Hussein, in cui “Israele” stava in bella evidenza tipografica al centro di una pagina in cui il premier commentava le cause della crisi del Golfo iniziata, come si ricorderà, con l’invasione irachena del Kuwait. Ora nel contesto del disastro egiziano, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, sulla base di una citazione da una conversazione fra Tzipi Livni e Bernard Henry Levy avvenuta due anni fa, identifica in “Israele” la causa primaria della crisi. L’esibizionista femminista tunisina Amina Sboul attribuisce a “Israele” il finanziamento di manifestazioni solo in apparenza a difesa dei diritti civili ma in realtà islamofobiche. Ed ecco la catena causale ripetuta da molte veline nella stampa occidentale: la sanguinosa repressione dei militari egiziani non sarebbe possibile se non ci fosse l’appoggio finanziario americano, che a sua volta arriva a condizione che venga mantenuto l’accordo di pace con “Israele”, che è dunque la causa primaria della crisi. Il problema è che tutte queste notizie vengono pubblicate con la parola “Israele” senza virgolette, come se fossero vere. E qualche lettore magari ci crede anche.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(22 agosto 2013)