Il bisogno della menzogna
Mentre si consuma il conto alla rovescia sul possibile intervento occidentale in Siria (discutendo su chi lo farebbe, con quali forze e risorse, verso quali obiettivi e così via), tra pareri dissenzienti e contrapposte prese di posizione, giungono lontani echi, dall’Europa e non solo, di un pacifismo che andrebbe riorganizzandosi per dire di no all’opzione militare. Si osservi che l’opposizione nasce non tanto e non solo dall’ipotesi operativa in sé, ovvero da un giudizio sulla sua effettiva funzionalità, bensì dall’avversione preventiva contro chi la guiderebbe, gli Stati Uniti, imputati, ancora una volta, di volere dare fiato alla loro vocazione «imperialista». Polemizzare con chi marcia per la pace è, a volte, un po’ come sparare sulla Croce rossa. O, se si preferisce, sul pianista. Due metafore non del tutto omologhe e tuttavia esplicative. Si tratta, infatti, quasi di un esercizio stanco perché ripetitivo. Ma spesso obbligato, per più versi, dalla pervicacia con la quale una parte cospicua dei movimenti che si richiamano, a vario titolo, al pacifismo stesso, identificano i loro obiettivi nella ripetizione del medesimo copione. L’atroce guerra infra-islamica (la si potrebbe definire altrimenti?) che attraversa la Siria, disintegrandone progressivamente quel che residua della società civile, ha già prodotto, in tutta probabilità, più di centomila morti. La cifra è incerta, comprendendo anche i combattenti contrapposti, poiché un computo sicuro non c’è, trattandosi di un conflitto che si misura a spanne, dove i corpi spesso precipitano in fosse comuni. Quel che è certa è la creazione di una nuova diaspora, questa volta siriana per l’appunto, che si aggiunge a quelle già generatesi nei decenni scorsi nelle terre circostanti. Nessuna voce si è levata, almeno dal nostro Paese, che è peraltro una delle terre di accoglienza di quanti scappano dal cataclisma bellico, rispetto ad uno sconvolgimento di immani proporzioni. I costi più elevati dovranno essere sopportati dalle aree contigue, a partire dalla regione transnazionale del Kurdistan, già interessata dalle fughe di molti iracheni negli anni passati. Non è meno probabile che un Assad posto con le spalle contro il muro, nell’estremo tentativo di puntellare quel che gli resta del potere, cerchi di coinvolgere Israele in questa partita a scacchi con la morte. Già espliciti segnali sono peraltro giunti in tal senso. Si tratta quindi di comprendere non «se» ma «come», «quanto» e «quando» tutto ciò potrebbe tradursi da minaccia in una concreta aggressione. Sta di fatto che gli oppositori di quello che resta del regime sono, a loro volta, figuri assai poco raccomandabile. Improbabile che nel caso di una loro vittoria si possa determinare un circuito di rinnovata stabilità. Le milizie di al-Qaeda e le varie osservanze fondamentaliste hanno infatti bisogno di un quadro di guerra permanente. Non ambiscono a governare secondo i criteri tradizionali, quelli propri ad uno Stato nazionale, ma a rinnovare le situazioni di eterna emergenza. Al momento – e si tratta di un momento storico che dura da almeno trent’anni – ricavano da ciò i maggiori benefici. Non per questo disdegneranno di abbattere un rais come l’oftalmologo damasceno, per poi procedere alla spartizione conflittuale, in aree di influenza, del territorio del paese, come già è avvenuto in Libia e nello stesso Iraq. Dopo di che, torniamo al punto di partenza, soffermandoci ancora una volta sulle manifestazioni di una parte del pacifismo contemporaneo. Il quale sembrerebbe rivelare, ancora una volta, il suo indirizzo a senso unico. La domanda (falsa, poiché conteneva in sé una affermazione mascherata da quesito) che mi sono sentito candidamente rivolgere è stata la seguente: «dietro questo disordine non c’è forse la mano d’Israele?». Obiettivamente, con tutta la comprensione che si può umanamente offrire a chi si dedica alla ripetizione dei medesimi cliché, stanca quella sproporzione nei suoi giudizi, destinata a trasformarsi inesorabilmente in un pregiudizio totale. Ma è risaputo che la maniacalità e il manicheismo sono due ottimi modi per coprire il vuoto pneumatico, quando si vuole vedere il mondo in una sola dimensione. E pensare che i «poveri» (anche se tali non sono) siano sempre buoni e dalla parte del giusto mentre i «ricchi» costituiscano per definizione la causa di tutti i mali. La cosiddetta «fine delle ideologie» non ha portato ad una laicizzazione del pensiero bensì ad una cristallizzazione dei suoi sembianti, gli spettri di un falso dibattito, che ripete ossessivamente le medesime parole poiché ad essere ossidate sono le menti (evitando di parlare di intelligenze, che sembrano essere vacanti in tutto e per tutto). Anche di questo si alimentano i conflitti in corso.
Claudio Vercelli
(1 settembre 2013)