Israele – La stagione delle riforme
La chiusura dell’anno 5773 si è dimostrata una stagione politica particolarmente densa in Israele, con la Knesset che ha approvato in prima lettura due riforme che, se portate a termine (previsto per entrambe un altro passaggio in commissione e altri due in aula), potrebbero dare impulso a una profonda trasformazione della società israeliana: l’innalzamento della soglia di sbarramento elettorale dal 2 al 4 per cento, e l’arruolamento nell’esercito dei giovani haredim, fino a questo momento esentati. Profondo il dibattito politico e sociale intorno a queste tematiche, che toccano il cuore dell’impostazione data allo Stato d’Israele dai suoi padri fondatori e la sua capacità di evolversi e rispondere alle sfide della realtà contemporanea. Guardando al sistema elettorale infatti, in gioco è la possibilità di proiettare i tanti gruppi, idee, anime che convivono nel paese nella leadership di governo. Nelle elezioni dello scorso gennaio sono entrati in parlamento 12 partiti. Se fosse stata applicata la nuova soglia, sarebbero stati solo otto: Kadima e le tre formazioni arabe Ta- ’al, Hadash e Balad sarebbero rimaste fuori (mentre queste insieme contano 11 deputati, solo uno di meno della terza forza di governo, Habayit Hayehudi). Una situazione che rappresenta meglio di ogni altra il grave dilemma fra rappresentanza e governabilità. I deputati dei tre partiti, ma anche delle altre forze d’opposizione, la sinistra del Labor e di Meretz, i haredim di Shas e Yahadut HaTorah si sono ritrovati uniti contro una proposta che definiscono antidemocratica, in uno scontro parlamentare che ha assunto a tratti delle forme davvero particolari: come il silenzio, tenuto da Mohammed Barakehsui di Hadash sul podio della Knesset, per tutti e tre i minuti concessi al suo intervento (una modalità di protesta imitata da molti altri), oppure la frase pronunciata in arabo da Yisrael Yitzhak Eichler di Yahadut HaTorah “siamo con voi nella lotta per la democrazia”, che ha ottenuto un sentito ringraziamento in yiddish da Ahmed Tibi di Ta’al. D’altro canto sono in molti a scommettere che forzare partiti con istanze simili ad allearsi porterebbe benefici non solo al sistema di governo, ma anche agli stessi gruppi che potrebbero ritrovarsi rappresentanti in grado di avere un maggiore impatto, in primis gli arabo-israeliani. Diverso il caso della legge per garantire l’arruolamento dei giovani haredim. Negli anni ‘50 era stato David Ben Gurion a stipulare un accordo che garantiva alle poche centinaia di studenti di yeshivah di studiare Torah senza prestare il servizio militare, anche per favorire la rinascita di un mondo che pareva essere stato quasi annientato dalla Shoah. Oggi vivono in Israele 800mila haredim (letteralmente “timorati”), il 10 per cento della popolazione, e dato il loro altissimo tasso di natalità il numero potrebbe raddoppiare entro il 2030 secondo gli studi della Banca centrale d’Israele. Il problema di una “condivisione del fardello”, secondo l’espressione utilizzata nel dibattito, è divenuto dunque urgente, e non soltanto per quanto riguarda il servire nell’esercito, ma anche, per esempio, a proposito della partecipazione alla forza lavoro, e dunque anche ai meccanismi fiscali, attualmente molto scarsa. Una situazione che il resto della popolazione israeliana vede con crescente insofferenza. E così, quando la Knesset si riunirà dopo la pausa estiva, l’approvazione della riforma Peri (dal nome del ministro proponente) rappresenterà un importante banco di prova. Drammatica è infatti la contrapposizione dei haredim, dentro e fuori dal Parlamento, nonostante la legge in discussione sia caratterizzata da un meccanismo di implementazione graduale e di percorsi nell’esercito che tengono conto di esigenze peculiari, come la possibilità di prestare servizio civile anziché militare, di rimandare l’arruolamento fino ai 21 anni, di ottenere una leva inferiore con programmi che combinano servizio e studio. La posizione espressa dai leader haredim va ricalibrata in considerazione del fatto che la comunità è estremamente diversificata al suo interno (basti ricordare che già esistono unità di volontari haredim in Tzahal), ma ha già dato luogo a fratture profonde. Ricordando inoltre che la riforma che ha ottenuto il primo sì dalla Knesset lascia inalterata la situazione di un altro gruppo al momento esente dalla leva, i cittadini arabo-israeliani, uno status quo che in molti vorrebbero modificare, in ragione di una maggiore equità. Ora il tempo sembra essere quello della riflessione. Per capire se il 5774 potrà portare una nuova dimostrazione che la società israeliana è in grado di cambiare di fronte alle sfide del nuovo tempo.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
Ecco la formula Peri
Nella primavera 2012 la Corte suprema israeliana ha dichiarato incostituzionale la Tal Law, approvata, una decina di anni prima, allo scopo di incoraggiare l’entrata dei haredim nell’esercito, ma che, secondo il verdetto, aveva dimostrato di aver fallito l’obiettivo. A presiedere la Commissione incaricata di studiare una soluzione è stato Yaakov Peri, già direttore del servizio di sicurezza Shin Bet e attuale deputato e ministro del partito centrista Yesh Atid. La proposta approvata in prima lettura dalla Knesset prevede che i giovani haredim (si stima siano circa 8mila a raggiungere ogni anno la maggiore età), debbano arruolarsi o prestare servizio civile per due anni (tre la normale durata della leva), con la possibilità di rimandare fino ai 21 anni. Garantite 1800 esenzioni agli studenti più meritevoli, mentre coloro che scelgono di frequentare una yeshivat hesder, che combina studi religiosi e militare, serviranno solo 17 mesi. Previsto un meccanismo di implementazione improntato a forte gradualità; a partire dal 2017 tuttavia i haredim che rifiuteranno di prestare servizio militare (o civile) saranno soggetti alle sanzioni penali previste dalla Law for the Security Services, come già avviene per gli altri cittadini israeliani.
Una rivoluzione nella Knesset
Nel corso dei suoi 65 anni di vita Israele ha avuto oltre trenta governi, ciascuno dei quali è durato dunque in media la metà della legislatura che avrebbe dovuto teoricamente coprire. Questo dato fotografa forse meglio di ogni altro la situazione di instabilità politica imposta al paese da un sistema elettorale basato sul proporzionale puro (con un unico collegio su base nazionale) e una soglia di sbarramento molto bassa (l’1 per cento fino al 1988 e l’1,5 fino al 2003, quando fu fissata quella attuale del 2 per cento): per rendere l’idea, alle ultime elezioni erano sufficienti circa 75mila preferenze per entrare nella Knesset. Questo il prezzo da pagare a fronte della necessità che tutte le anime della società israeliana, così diversificata e in continua evoluzione, trovassero una propria rappresentanza politica. Una necessità che oggi, in un paese più maturo, in molti considerano attenuata. La possibilità di innalzare lo sbarramento al 4 per cento viene tuttavia fortemente criticata dai partiti di opposizione, tanto quelli di sinistra quanto i due haredim, oltre alle tre formazioni arabe, che con le nuove regole proposte alle scorse elezioni non sarebbero passate.
Pagine Ebraiche, settembre 2013
(13 settembre 2013)