Israele – La fine di un viaggio
Tirare le somme di tanti giorni passati tra laboratori e scienziati di primordine non è affatto facile. Ho nel cassetto storie e interviste per i prossimi due anni almeno. Di ritorno alla mia scrivania milanese, posso solo dire di aver trovato in Israele un Paese dove lo sviluppo scientifico e tecnologico è ancora al centro dell’agenda sociale e politica. Certo, i ricercatori si lamentano anche lì, perché i fondi stanno diminuendo e gli investimenti, specie nella ricerca di base – quella che non ha applicazioni pratiche immediate – è in calo, ma si tratta comunque di una situazione privilegiata. Qualche informazione: Israele è al 13esimo posto nel mondo per produzione scientifica, un dato impressionante se rapportato alla popolazione. Vi è un professore ogni 26 studenti universitari. Le università sono pubbliche (la tassa d’iscrizione annua non supera i 1500 euro) pur garantendo, grazie a una rigida selezione nell’accesso (anche per le facoltà umanistiche), una qualità di insegnamento simile a quella delle carissime università americane.
Solo il 17% della spesa per ricerca universitaria viene dallo Stato, il resto è coperto da donazioni filantropiche, bandi europei (i famosi ERC grant) e soprattutto da brevetti, che hanno generato nel 2009 royalties per oltre 500 milioni di dollari. Giusto per fare un confronto, l’incidenza dei brevetti sulla possibilità di spesa delle università italiane è quasi nullo.
Daniel Zajfam, il presidente dell’Istituto Weizmann, che ci ha ricevuto l’altro ieri, è un fisico belga che, dopo aver diretto per molti anni il prestigioso Max Planck Institute, in Germania, ha scelto di occuparsi dell’unico centro di ricerca universitario israeliano che non ha laureandi ma solo dottorandi e post doc, cioè ricercatori in formazione. La sua ricetta per il successo è paradossalmente opposta a quella del Technion di Haifa, a dimostrazione del fatto che nella scienza, come nella politica, non esiste un unico modello di governance: niente regole prestabilite, niente scelte strategiche sulla direzione da dare, ma solo persone con grande entusiasmo e grandi idee: “Quando devo reclutare un ricercatore, non mi importa se c’è già un gruppo che lavora nel suo stesso campo. Lo incontro, ci beviamo un caffè e se sento la passione e l’intelligenza, allora è fatta. La scienza è un processo creativo, quindi i nostri scienziati sono messi nella condizione di fare il meglio: hanno case e servizi nel campus, i loro figli sono presi in carico dalla comunità del Weizmann, così non perdiamo per strada le donne, che hanno un forte potenziale. E non chiediamo di lavorare per i brevetti, ma solo per la curiosità, per amore di conoscenza. Quando si fa così, i brevetti arrivano da soli e contribuiscono a dare solidità al nostro istituto”.
Tutto bello, tutto perfetto? Niente affatto: come dicevo nel primo articolo di questa serie, la scienza è lo specchio di un Paese, e Israele non fa eccezione. Molte sue università hanno una spiccata vocazione alla produzione tecnologica, cioè al guadagno: niente di male, se non fosse che la scienza ha assolutamente bisogno di laboratori che, come al Weizmann, possano lavorare sui meccanismi di base, sulla pura conoscenza, nonché sulle sempre bistrattate specialità umanistiche, che costituiscono però il nocciolo culturale di un Paese.
In tutto il nostro viaggio non abbiamo conosciuto nemmeno un professore arabo israeliano: ce ne sono, anche molto brillanti, ma sono ancora una minoranza esigua rispetto alla popolazione arabo israeliana nel Paese, e la mancanza di soldi pubblici ha, negli ultimi anni, rallentato i programmi nati per favorire la formazione scolastica di questa comunità. Solo aumentando il numero di arabi israeliani nelle università, prima come studenti poi come accademici, si riuscirà a integrare pienamente questa importante parte della società israeliana e ad appianare i contrasti e le discriminazioni. Infine vi sono le minoranze interne al mondo ebraico: abbiamo incrociato pochissimi studenti falascià ma moltissime donne di quella comunità impiegate nelle pulizie e nei servizi.
La scienza ha anche un importante ruolo etico e sociale, anche se non è nata per questo: può favorire l’uguaglianza, il superamento delle differenze e dei conflitti. Non a caso Albert Einstein, tra i fondatori dell’Università Ebraica, quando ricevette l’invito a diventare Presidente del neonato Stato di Israele, rispose dicendo che si sentiva molto legato a quella terra ma restava prima di tutto cittadino del mondo.
Daniela Ovadia, giornalista scientifica
(12 novembre 2013)