Periscopio – Quali conflitti, quali rischi
I giovani soldati di Tzahal rappresentano, com’è noto, uno dei principali elementi distintivi del paesaggio di Israele: si incontrano dovunque, quei ragazzi di vent’anni, nei bus e nei bar, sulle panchine e nei parchi, allegri o annoiati, da soli, in coppia o in gruppo, con le loro divise verdi, i loro zaini, i loro mitra a tracolla. Non c’è niente che possa esprimere, come loro, la forza e la malinconia di Israele: la forza di un Paese che può contare su tale inestimabile risorsa per la propria sicurezza e il proprio futuro; la tristezza di una gioventù costretta a impegnarsi in attività tanto lontane da quelle che dovrebbero essere i normali impegni giovanili.
Ho letto perciò con grande interesse l’articolo di Aviram Levy, sul numero di novembre di Pagine Ebraiche, intitolato “Tzahal, riorganizzazione e tecnologia: verso un esercito di professione”. “Per il momento – scrive l’opinionista – rimane l’obbligo di leva con durata di tre anni ma non è escluso che in futuro le cose cambino; il ricorso ai riservisti è già stato molto ridimensionato negli ultimi anni”. Alla base di tali cambiamenti, diversi fattori, tra cui la circostanza che “il rischio di conflitti convenzionali è molto diminuito”.
Tali considerazioni mi hanno suscitato un sentimento contrastante, da una parte di cauta speranza, dall’altra di inquietudine e perplessità. Chi potrebbe non rallegrarsi, infatti, del fatto che i giovani israeliani potrebbero essere, in un futuro prossimo, meno impegnati in compiti di difesa militare, per potersi quindi dedicare alle fisiologiche occupazioni della loro età, quali lo studio, lo svago, l’inserimento nel mondo del lavoro? Israele potrebbe forse diventare, un domani, un Paese ‘normale’, o quasi? Che notizia straordinaria, che cosa bella che sarebbe.
Accanto alla letizia, però, l’analisi di Levy desta anche preoccupazione. Il “rischio di conflitti convenzionali è molto diminuito”. Vorremmo essere contenti di tale asserzione, che, in considerazione dell’alta autorevolezza dell’autore, deve considerarsi credibile. Ma si pongono due domande. La prima è la seguente: tale diminuzione di rischio corrisponde forse a una, sia pur lieve, diminuzione dell’ostilità anti-israeliana da parte degli animosi e aggressivi vicini dello Stato ebraico? C’è meno rischio di guerra perché c’è meno odio, meno propaganda ostile, perché ci si avvicina a prendere in considerazione l’idea di una pacifica convivenza, senza guerra e terrorismo? Francamente, non mi pare.
La seconda domanda è questa: se il livello di ostilità non è diminuito, ma è diminuito il rischio di conflitti “convenzionali”, è forse aumentato quello di conflitti “non convenzionali”? E quali sarebbero? Nella mutata situazione strategica, Israele è più sicuro di prima, o lo è di meno?
Un domanda difficile, a cui pare difficile dare risposta.
Francesco Lucrezi, storico
(18 dicembre 2013)