Identità: Alexander Altmann

Alexander AltmannNel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica.
Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte.

Alexander Altmann (1906-1987)
Rabbino ed erudito, figlio di un rabbino ungherese che nel 1938 emigra in Olanda e muore ad Auschwitz. Anche Altmann è stato rabbino a Berlino (dal 1931 al 1938) e ha insegnato filosofia al seminario rabbinico di quella città fino a quando è nominato rabbino della comunità di Manchester dove crea l’Institute of Jewish Studies, in seguito trasferito a Londra. Nel 1959, è nominato professore di filosofia ebraica all’università Brandeis (Stati Uniti) e direttore del Lown Institute for Advanced Judaic Studies, presso la stessa università. Altmann ha pubblicato molti lavori sulla storia della filosofia ebraica ed è stato redattore del “Journal of Jewish Studies” e di “Scripta Judaica”.

Brandeis University, Waltham, 3 tevet 5719 (15 dicembre 1958)

Signor Primo ministro, Mi è giunta negli Stati Uniti la Sua lettera del 13 di cheshvan (27 ottobre) e mi affretto a risponderle e a esprimerle la mia opinione sull’importante questione che preoccupa i membri della commissione nominata in seguito al provvedimento del governo israeliano del 15 giugno 1958. Capisco che si tratta essenzialmente di decidere quali saranno, in pratica, i criteri per l’iscrizione dei figli nati da matrimoni misti quando la madre non si è convertita ma è d’accordo con il padre ebreo che anche il figlio lo sia. È sufficiente, per questo, che i genitori ne esprimano il desiderio e dichiarino in buona fede che il figlio non appartiene a nessun’altra religione, oppure è necessaria una qualsiasi cerimonia? In altri termini, il problema è sapere se la dichiarazione dei genitori è sufficiente per attribuire al figlio uno statuto legale di “ebreo”, oppure se il figlio ha bisogno di un atto specificatamente religioso secondo le regole della Halakhah tradizionale per essere ammesso nel kelal [pubblico] ebraico. A prima vista, nel nostro caso, i genitori non vogliono una cerimonia di conversione per il figlio perché, se così fosse, non si porrebbe il problema dal momento che si rivolgerebbero al tribunale rabbinico israeliano per una conversione. Possiamo supporre che nel nostro caso i genitori non sono religiosi e non vedono la necessità di far convertire il figlio dato che basta loro il fatto che egli sia ebreo soltanto nel senso nazionale del termine. Sembra che alla base di una posizione del genere si trovi la concezione che il termine ebreo resta valido anche quando l’aspetto religioso è totalmente scartato e che un individuo non ebreo di nascita possa diventare parte del kelal ebraico secondo il proprio desiderio oppure, nel caso di un figlio, secondo la dichiarazione dei suoi genitori.
Questa è la domanda: esiste una tale possibilità, e c’è una categoria di ebrei per i quali l’ebraismo si limita a un’appartenenza nazionale? È evidente che il problema è sapere se si può, secondo la legge dello Stato di Israele, separare il religioso dal nazionale, se tale separazione non è valida nello Stato di Israele, e se in questo caso è necessario mantenere la nozione tradizionale secondo la quale il religioso e il nazionale formano una sola cosa cui si deve restare fedeli. Prima di tentare di rispondere a questa domanda, mi permetto di fare osservare che si potrebbe trovare un sistema per applicare la legge dello stato civile in modo che debba non porsi il problema della religione e della nazione. Proporrei che, invece di chiedere a quale religione e a quale nazione appartiene un individuo, si iscriva soltanto la sua origine etnica, da parte di padre quanto da parte della madre. Quando avremo la risposta a questa domanda, il profilo della persona sarà chiaro – dal punto di vista delle considerazioni in materia di sicurezza nazionale per le quali si fa l’iscrizione allo stato civile – e avremo raggiunto lo scopo desiderato. Certo, il figlio di matrimonio misto, per esempio, di padre ebreo e di madre polacca, sarà iscritto in questa forma, in modo oggettivo, secondo fatti evidenti, senza che si cerchi di decidere quale sia l’appartenenza nazionale del figlio. È necessario anche ricordare che in uno Stato democratico moderno, la questione della religione e del- la nazione non concerne la carta di identità. Le condizioni particolari dello Stato di Israele esigono, d’altronde, che si faccia molta attenzione all’origine di una persona. Ho sentito dire che anche negli Stati Uniti pongono la domanda sull’origine etnica a coloro che si rivolgono ai consoli per ottenere il permesso di immigrazione.
Nel caso in cui la mia proposta fosse considerata irrealizzabile, la questione già menzionata dovrebbe essere di nuovo esaminata e sarebbe necessario trovarle una risposta di principio. A mio avviso, l’unità indissociabile dell’elemento nazionale da quello religioso è uno dei tratti fondamentali dell’ebraismo. Per la tradizione ebraica, la religione non è un vissuto che si sovrappone alla nazione, ne è l’essenza, la radice. Le antiche tribù di Israele sono diventate un popolo unicamente per l’influenza delle esperienze religiose e la storia di questo popolo e della religione vanno di pari passo. Quando dice: “Il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio”,Rut la moabita ha espresso (Rut 1,16. ) la propria volontà di unirsi al popolo ebraico e alla sua religione. Il popolo e il suo Dio sono uniti l’uno all’altro e non si può separare ciò che è indivisibile. Ovviamente troviamo tale unità anche in altri popoli mediterranei dell’antichità, ma in Israele troviamo anche l’idea religiosa dell’“elezione di Israele” secondo la quale la nazione è stata santificata sin dalle origini, per il ruolo religioso-universale della sua vocazione, nel suo destino e nel suo splendore. Questo concetto è un elemento centrale ricorrente nella storia della spiritualità ebraica (che conserva ancora oggi tutto il suo vigore), con tutte le sue declinazioni e le sue manifestazioni, dai tempi biblici e dalle leggende dei Saggi fino ai filosofi del Medioevo e ai Kabbalisti. Non si può negare che la laicizzazione moderna nelle nazioni cristiane ha causato la dissociazione delle nozioni di religione e di nazione. Nelle nazioni cristiane, né l’una né l’altra ne hanno tuttavia risentito perché la loro unità era soltanto una circostanza storica che ha avuto luogo in un determinato tempo, in seguito a una conquista della nazione e del suo asservimento alla Chiesa, ma non era una cosa naturale e organica come nel caso del popolo ebraico. Franz Rosenzweig ha giustamente osservato che, nel cuore delle nazioni cristiane, la frattura tra il mito nazionale e la religione vittoriosa non è stata riassorbita e che forse una delle radici dell’antisemitismo è stato il sentimento di rivolta di una nazione idolatra contro una religione di origine ebraica. Nell’anima del popolo di Israele, invece, il senti- mento religioso e quello nazionale non sono mai entrati in conflitto; al contrario, più l’ebreo si sforza di capire la sua Torah e il suo Dio, meglio comprende l’importanza di preservarne l’aspetto nazionale. Tutta la forza nazionale del popolo di Israele deriva dall’unità della fede religiosa e dalla volontà di esistenza della nazione e minacciare tale unità significa indebolire la cosa più preziosa di questo popolo. È perciò ovvio che non si possa ammettere un aspetto nazionale ebraico slegato dalla religione, e alla domanda qui posta, la risposta è, in modo assoluto, che semplici parole pronunciate dai genitori, anche se sincere, non hanno alcuna validità per fare del figlio un ebreo e, oltre alla dichiarazione e all’espressione della loro volontà, il figlio deve essere convertito secondo la tradizione e la Halakhah.
Questo era l’aspetto teologico del problema in oggetto che assume una particolare importanza nella nostra epoca che ha visto la rinascita della nazione e la fondazione dello Stato di Israele sovrano sul proprio suolo sacro, perché questa rinascita ha profondamente cambiato il significato del nome Israele: questo indica ora una nazionalità che comprende ebrei e arabi, e tutti coloro, di tutte le nazioni, che si uniscono a noi e ottengono il diritto di essere cittadini israeliani. Come conseguenza di questo processo storico, il nome Israele si è in qualche modo svuotato del proprio contenuto religioso per diventare una denominazione politica. Si deve allora fare attenzione a non sopprimere anche il contenuto religioso della parola ebreo, e a non farlo scenderle dalla scala elevata in cui si trova per qualche ragione politica e laica. Tale cambiamento aprirebbe la strada all’uso della parola ebreo per definire persone che per la tradizione e per la religione non ne hanno diritto. Sembra sia necessario limitare questa denominazione alle persone che sono ebree di nascita o convertite. Ovviamente un ebreo di nascita o convertito resta ebreo per sempre anche se si al- lontana di fatto dalla religione perché la Halakhah ha accettato il principio secondo il quale “anche se trasgredisce la legge un ebreo resta sempre ebreo”. (Talmud, Trattato Sanhedrin 44a.)
Non sono del parere che si debba ricorrere a una terza parola, come “hébreu”per indicare degli ebrei soltanto di nazionalità. Chi potrebbe essere soddisfatto dell’uso di un nome di valore inferiore a quello di ebreo? Inoltre, perché aumentare la confusione? L’opinione qui espressa non si oppone al principio della libertà di religione che è stato promesso a tutti i residenti nello Stato di Israele. Il principio di libertà di coscienza e di religione significa soltanto che la costrizione religiosa è proibita e che ogni individuo ha diritto di scegliere la religione cui vuole appartenere. Nessuno può essere obbligato dallo Stato a osservare – oppure no – una religione, quale essa sia. Ma è evidente che se qualcuno vuole adottare una religione, deve essere accettato come convertito. La sua volontà soltanto non basta a farlo membro della comunità cui vuole appartenere. Come è libero di adottare la religione che vuole, anche la religione ha il diritto di accettarlo o di rifiutarlo.
Sono completamente d’accordo con le considerazioni espresse nella Sua lettera che dicono che la “fusione degli esili” in uno stampo nazionale unico è una missione vitale per Israele. Ma proprio da questo punto di vista dobbiamo esigere che i figli nati da matrimoni misti siano accettati in quanto veri convertiti e non perché con- vertiti a metà; se così fosse, il processo di fusione non potrebbe riuscire e questi figli si considererebbero sempre diversi dagli altri e non dei veri ebrei.
Per aiutarli a integrasi armoniosamente nella nazione, si deve evitare di dare loro un carattere ebraico soltanto nazionale. Se non sono accettati come veri convertiti non sarà loro possibile entrare nella “comunità di Dio” attraverso il legame del matrimonio con famiglie ebraiche e, tra queste, con famiglie religiose. È perciò per il loro bene che si deve esigere una vera conversione e non accontentarsi dell’espressione della volontà dei genitori.
Per finire, vorrei porre l’accento ancora su una cosa. È ovvio che il rabbinato di Israele deve avere la libertà di affrontare come vuole qualsiasi persona che voglia convertirsi. L’autorità appartiene ai rabbini, che sono responsabili di fronte alla storia eterna di Israele e di fronte alla nazione. Ma si deve auspicare che al crocevia in cui ci troviamo in questi tempi, quando gli esiliati si riuniscono e lo Stato aspetta le miriadi di ebrei dell’Est, i rabbini trattino la questione dei convertiti con generosità e facilitino l’affiliazione all’ebraismo dei figli i cui genitori immigreranno in Israele per trovarvi asilo e libertà. Un compito importante di cui sono incaricati i rabbini è quello di fare entrare questi figli “sotto le ali della Provvidenza”, per dare loro un sentimento di amore per il popolo di Israele e per la sua tradizione sacra. Rivolgo una preghiera perché i rabbini di Israele si adoperino in ogni modo per consentire la completa integrazione dei figli di cui abbiamo parlato.

Con tutto il mio rispetto

Alexander Altmann