Terra dalla pace anarchica
La novità nel pensare la pace sta nel non collocarla – come ha fatto tutta la tradizione filosofica occidentale – alla fine della guerra. La pace non è la cessazione dei combattimenti, per l’estinzione dei combattenti, o la sconfitta degli uni, la vittoria degli altri. La pace non è la pace perpetua dei morti, fondata sui cimiteri, eretta dai futuri imperi globali. La pace non è di là da venire, ma è al di là della guerra. È questa l’inversione che si deve compiere nel pensare la pace e la guerra. Perché mai si dovrebbe accettare una priorità, ontologica, logica, cronologica, della guerra sulla pace? Se così fosse, si dovrebbe convenire con la filosofia occidentale e muovere dalla guerra di tutti contro tutti per favorire, a partire di qui, la pace che si costituisce attraverso il sapere di cui la ragione assicura la verità. La pace sarebbe allora quell’ideale da raggiungere là dove gli individui si accordano nella verità razionale sollevandosi volontariamente dalla propria egoità per assimilarsi obbedienti alla legge universale, guidati dalla ragione nel superamento di ogni alterità. Questa pace è basata infatti sull’uguaglianza formale degli individui, uguaglianza tra individui in pace che possono finalmente esistere per sé. Pace intesa come sicurezza dell’uomo soddisfatto di sé nel suo benessere. Pace assunta come quell’acquietarsi nella propria positività e nella propria posizione. Questa pace auspicata, pretesa, voluta dalla ragione filosofica, è una pace bellica e belligerante, che anche nella tregua seguita a rivelarsi violenta e, se non è la violenza lancinante dell’acciaio, è la violenza subdola dell’oro, è la violenza pacifica dello sfruttamento perpetrata dal capitale e dalle macchine. Pace che, come da tempo è tempo, non esclude il rimedio di una guerra – per ristabilirsi. Ma la pace prodotta dalla guerra, si fonda sulla guerra, in un cerchio che sembra non potersi spezzare. L’inversione sta nel mostrare dove e come il cerchio si spezza, nell’indicare una pace differente da quella differita, rimandata, posticipata, di là da venire, una pace altra rispetto a quella che si adagia nella indifferenza per l’altro. Un’altra pace è la pace più antica della guerra, quella che precede la guerra e il suo ordine, pace anarchica non deducibile dalla guerra, che senza principio e senza comando si dà nella relazione dell’io con l’altro, con il suo oltre che gli dischiude l’infinito. La pace è questa relazione. E si produce nella parola che l’altro già sempre rivolge all’io, senza la quale l’io non potrebbe neppure essere “io”. La sconfitta della parola è la vittoria della guerra. Non è la pace della non aggressione, che usa la guerra preventiva per assicurare a ciascuno la propria posizione, il proprio conto; piuttosto è la pace della non-indifferenza verso la differenza dell’altro che irrompe d’improvviso interrompendo il tempo. Come a dire che la pace non può essere se non pace messianica – e per converso il tratto distintivo del tempo messianico è la fine della violenza politica e dell’ingiustizia sociale. Proprio perché il tempo messianico è intrastorico, e non metastorico, è il tempo della storia che irrompe nella storia trasformandola, dove la pace viene in luce come non mai nella relazione con l’altro che assume i contorni di una attenzione non-indifferente verso l’altro inteso come colui che soffre ingiustamente. La torsione su di sé dell’io che dicendo io si rivolge all’altro: è questo il messianismo nel suo incondizionato valore. E la rottura non si dà in un punto estremo; resta possibile in ogni istante. I giorni del Messia sono l’interruzione imprevista e imprevedibile, l’irruzione traumatica, al limite del sé, della trascendenza dell’altro. Questo evento che giunge da un altrove è il compimento dell’obbligo in cui si raccoglie tutta la Torah: “non ucciderai”.
Donatella Di Cesare
(Testo tratto da “Israele. Terra, ritorno, anarchia” – Bollati Boringhieri editore)