Israele – Una speranza per i bimbi siriani
Una bimba di sette mesi combatte per vivere nel campo profughi siriani del Kurdistan iracheno. Ha un difetto cardiaco e pesa solo tre chilogrammi. I medici non ritengono sia sicuro operarla finché non diventa più robusta. Proprio ciò che la malattia le impedisce di fare. Ma qualcuno, molto lontano, ha saputo di lei e ha fatto un lungo viaggio. Per permetterle di arrivare dove potrà essere aiutata.
“Dove la volete portare?” chiede il nonno Muammad all’occidentale di fronte a lui “Al Quds, Gerusalemme”. “In Palestina?”. “In Israele”. Pausa. “Va bene”.
Jonathan Miles, fondatore dell’organizzazione cristiana basata in Israele Shevet Achim, nata allo scopo di portare a curarsi nello Stato ebraico bambini malati da tutti i paesi musulmani, di conversazioni del genere ne ha avute a decine, non solo in Kurdistan (“dove non c’è ostilità nei confronti di Israele – spiega al Times of Israel – Se mai stupore, a volte anche curiosità ed entusiasmo all’idea di viaggiare per arrivarci”), ma anche in Giordania, Gaza, nei Territori palestinesi. Quando giunge a Shevet Achim la notizia di un caso, di un bambino che potrebbe avere bisogno di aiuto, il suo staff si mette a cercarlo, per quanto vaghe possano essere le informazioni. Per esempio in dicembre il londinese Sunday Times aveva pubblicato la storia di Liliana, cinque anni gravemente ammalata nel campo profughi di Darashakran. L’organizzazione si è mossa e quando l’ha trovata, ha scoperto che aveva già ricevuto le cure necessarie. Ma il viaggio è stato l’occasione per scoprire altri bambini da aiutare. Tra gli ospedali coinvolti, il Wolfson Medical Center di Holon, dove verrà ricoverata anche la piccola di sette mesi che, come gli altri pazienti, deve rimanere senza nome, perché le famiglie potrebbero essere in pericolo se si sapesse che accettano l’aiuto di Israele. Anche in Kurdistan dove il campo è infiltrato da agenti iraniani.
In prima linea, ogni giorno, per aiutare i civili siriani è anche Tzahal, l’esercito di difesa israeliano, che ha impiantato lungo il confine un ospedale militare da campo per curare le vittime di un conflitto che sembra non trovare soluzione. “Chi salva una vita salva il mondo intero” ricorda il blog ufficiale di Tzahal in cui vengono raccontati degli sforzi per aiutare i siriani.
“Il codice etico dell’esercito stabilisce chiaramente che un soldato ha il dovere di aiutare chiunque sia ammalato o ferito – sottolinea il colonnello Tariff Bader, druso, responsabile della struttura – Qui ci occupiamo di coloro che non sono in condizione di essere trasportati in ospedali civili. Nessuno è mai rimasto senza cure. E se all’inizio c’era un po’ di diffidenza, oggi i siriani si fidano di noi”. Tanti i bambini che arrivano lì, non solo feriti, ma anche traumatizzati. Si fa di tutto per sostenerli, anche psicologicamente. Per esempio attraverso le visite regolari di clown per regalare loro un sorriso.
Quando i pazienti sono curati, vengono riaccompagnati sul confine, stando attenti a cancellare ogni traccia per non metterli in pericolo tornati in Siria.
“Sono anch’io un padre – conclude Bader – E sono orgoglioso di fare questo lavoro. Come medico e come cittadino israeliano”.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
(29 gennaio 2014)