L’Israele di Sayed Kashua
Ciò che mi affascina maggiormente della letteratura israeliana è la peculiarità di racchiudere in sé autori delle più lontane e diverse estrazioni culturali e geografiche che non mascherano questo retaggio nei propri scritti. Una caratteristica che in fondo riflette i molti colori di Israele. Al suo opposto si trova la cosiddetta “letteratura arabo-palestinese”, scritta conformemente in lingua araba da autori arabi di Israele o della Cisgiordania. Difficile trovare però autori arabo-israeliani che scrivono in lingua ebraica e da inserirsi specificamente nella letteratura israeliana. Un raro esempio viene offerto dallo scrittore Sayed Kashua, nato a Tira nel 1975, formatosi in materie umanistiche all’Israel Arts and Science Academy e all’Hebrew University of Jerusalem, e colonnista di numerosi giornali israeliani, tra cui Haaretz. Il primo libro pubblicato è “Aravim Roqdim” (“Arabi Danzanti”, 2002, edito in Italia da Guanda, con traduzione di Elena Loewenthal), da qui seguiranno “Wa-Yehi Boqer” (“E fu Mattina”, Guanda, 2006) e l’ancora disponibile nelle librerie “Guf sheni yahid” (“Seconda persona singolare”, Guanda 2013). “Arabi Danzanti”, da cui sono partito, è da considerare come la prima tappa di un percorso in parte auto-biografico, in cui il protagonista racconta il proprio vissuto come arabo cittadino d’Israele (“con la carta d’identità blu”, come sottolineerà varie volte), in cui a un comune ressentiment verso lo Stato ebraico condiviso dai suoi connazionali, si interpone una controtendente attrazione verso la moderna ed equanime società israeliana posta in antitesi con il mondo arabo in cui è cresciuto, marcato da immobilismo politico-sociale, corruzione, faide e divari interni, arretratezza e indottrinamento ideologico. Scaturendo in lui, in parallelo con i suoi rapporti familiari problematici, un rifiuto e una mancata accettazione della propria identità araba nel fervente desiderio di assimilazione o meglio normalizzazione e confronto con la parte avversa, scontrandosi però in un’incompatibilità di fondo davanti ad un conflitto culturale-politico onnipresente. Siamo in ogni caso lontani dalla fantasiosa “apartheid” o dallo “stato su base razziale” tratteggiato dai media, in Arabi Danzanti si ritrova forse un contesto analogo a stati bi-nazionali come il Canada o il Belgio, si incontrano arabi che lavorano o studiano presso facoltose scuole israeliane, ed ebrei israeliani che affollano le vie dell’araba Tira per le compere di Sabato, si assiste a scambi culturali tra scuole arabe ed ebraiche, il tutto in una stretta simbiosi e crescita reciproca, ugualmente rinnegata che non cessa dunque di provocare diffidenze e sete di vendetta e rivalsa. Kashua depone accuse dirette o prese di posizione specifiche, la formazione e le vicende del protagonista che progressivamente sfoceranno in una sorta di crisi identitaria, vengono affrontate sempre con debita distanza se non con humour e vis comica. Dipingendo un affresco della società israeliana da un’altra visuale, con gli occhi di un outsider che non si sente più affine e in linea con il suo gruppo di appartenenza, ma che al tempo stesso non può collocarsi neanche nell’altro. Disilluso e stanco di esibire la bandiera nazionale come in una partita di calcio, intravedendone la vanità e non trovandoci più un valido scopo. Non è una resa al “nemico”, ma piuttosto una presa di coscienza delle sue qualità e dell’assurdità di una realtà finora senza via d’uscita, la quale ha prodotto inevitabilmente confini e incomprensioni. Perfino il padre del protagonista, ex militante della causa palestinese e fedele nostalgico dell’Egitto di Nasser, alla fine del romanzo perderà ogni interesse per la “riconquista” e ogni speranza di un ipotetico intervento dei paesi arabi in favore di essa, consapevole dell’abbandono e del disinteresse arabo-islamico nei confronti della sua gente, “meglio essere servi di un nemico che servi di un leader del tuo popolo” concluderà. E all’ultimo nato della famiglia, scartati gli ideologici Al-Kassem, gli Ard (terra) e i Watan (patria), verrà optato per il più innocuo e israeliano nome Dani, nel segno dell’integrazione. Simboleggiando così, forse, anche quel sintomo rivelato da numerosi sondaggi, che vede gran parte della popolazione araba d’Israele (in alcuni casi la maggioranza), restia a cambiare la cittadinanza israeliana in cambio di qualsiasi altra al mondo, neanche in vista di un futuro Stato palestinese, identificando Israele come migliore di molti altri Stati, specie per quanto concerne il sistema del welfare e il suo assetto democratico. Oltre l’aspetto ludico, che in Sayed Kashua certo non manca, la letteratura può qui divenire nuovamente testimonianza, per guardare Israele nei suoi ricchi contrasti e sotto diverse prospettive, sfatando anche i soliti pregiudizi e luoghi comuni che sentiamo ogni giorno.
Francesco Moises Bassano
(28 febbraio 2014)