Israele – Intervista al deputato rav Dov Lipman. Stato e religione, la ricetta di Yesh Atid

lipman“C’è così tanto che ci unisce”. Sembra essere questa la cifra fondamentale di Dov Lipman, rabbino e deputato alla Knesset nel partito centrista Yesh Atid (“C’è futuro”). Primo cittadino americano eletto dagli anni ‘80, di rav Lipman colpisce l’aria sorridente e l’ottimismo che professa anche nei confronti delle situazioni più complesse che lo Stato d’Israele si trova ad affrontare, dalla profonda frattura con la popolazione haredi, alla riforma del sistema matrimoniale. Lui stesso di formazione rigorosamente ortodossa, con un master in Education alla prestigiosa Università statunitense Johns Hopkins in aggiunta alla semikhah rabbinica conseguita alla Yeshiva Ner Israel di Baltimora, il rav si è trasferito in Israele nel 2004 e incontrando Pagine Ebraiche affronta a tutto campo i grandi temi al centro del dibattito pubblico.

Rav Lipman, cosa significa per lei la politica?

“Quando ci siamo trasferiti in Israele, io e mia moglie abbiamo scelto di vivere a Bet Shemesh, perché sapevamo ci sarebbero state persone di ogni tipo, ebrei religiosi, laici, haredim, russi, etiopi, americani, uno Stato ebraico in miniatura. Qualche tempo dopo, durante una manifestazione di alcuni gruppi di haredim, e ci tengo a enfatizzare che si trattava di alcuni, perché la maggior parte dei haredim non farebbe mai nulla di violento, fui ferito da una pietra a pochi passi da casa. Facendo l’aliyah ero preparato a tante difficoltà. Non a essere colpito da un altro ebreo. Oggi quella pietra è sulla mia scrivania alla Knesset. Da lì è nato il mio impegno politico. Abbiamo un paese meraviglioso, un miracolo, in ogni prospettiva. Ma ciò su cui dobbiamo ancora lavorare è come riuscire a riunire in un unico luogo persone che vengono da duemila anni di esperienze nazionali e culturali diverse, e farle convivere nel rispetto reciproco. La sfida è questa.

Lei non conosceva Yair Lapid e molti immaginavano che avrebbe seguito le orme del padre Tommy, fortemente critico nei confronti delle istanze religiose. Come si è ritrovato nel suo partito?

Io per primo in effetti avevo alcuni pregiudizi nei confronti di Yair. Ma lui ha sempre avuto in mente questo progetto, creare un partito che mettesse insieme persone diverse. Ci siamo conosciuti e parlati, ho incontrato altre figure coinvolte in Yesh Atid, come rav Shai Piron, oggi Ministro dell’Educazione. La nomina di Piron a numero due della lista ha significato molto. E l’esperienza si sta rivelando assolutamente positiva. Lavoriamo insieme sul serio. Per me non si tratta di fare il rabbino da una parte e il deputato dall’altra, le due cose si fondono completamente.

Una delle più forti novità politiche introdotte in Israele con le elezioni di gennaio 2013 è stata l’alleanza tra Yesh Atid e Habayit Hayehudì, che però ha una posizione molto diversa dalla vostra almeno su una questione essenziale, quella dei negoziati di pace con i palestinesi, che ultimamente sono entrati nel vivo.
Le nostre posizioni sono molto vicine su varie materie e in primo luogo sui temi economici. E il punto è questo. Nel momento in cui si raggiungerà un accordo di pace, il premier Benjamin Netanyahu sa che potrà contare sul pieno appoggio di Yesh Atid, mentre Habayt Hayehudì ha un altro approccio. Ma ci sono così tante cose che possiamo fare bene insieme nel frattempo. Perché non dovremmo impegnarci per realizzarle?

Yesh Atid ha riscosso un successo elettorale incredibile e sollevato grandi aspettative. Dopo un anno però molti sono delusi e l’indice di gradimento di Lapid è in forte calo.
Noi siamo felici perché abbiamo la possibilità di fare la differenza. Ci siamo dati cinque priorità e le stiamo portando avanti, con risultati significativi: equità nel servizio militare, riforma del sistema educativo, piano per combattere il caro- alloggi, maggiore equità sulle tariffe dei servizi, riforma elettorale. Non è la popolarità che conta.

Lei è sempre stato ottimista sull’approvazione della riforma per introdurre la leva dei giovani haredim?
Direi di sì, perché ciò che abbiamo proposto ha tenuto conto delle esigenze di chi è osservante. La riforma è basata sul compromesso, come è giusto che sia, e avrà un’implementazione molto graduale, da qui al 2017. E le assicuro che gli stessi haredim, parlando in privato, sono molto più consapevoli della sua necessità di quanto non abbiano ammesso. Soprattutto la riforma prevede che tutti coloro che hanno ricevuto l’esenzione dalla leva, possano andare a lavorare e non siano costretti a studiare a tempo pieno fino a 30 anni come avveniva prima. E questo significa che potranno uscire dalla situazione di povertà in cui si trovano. Sono in tanti a volerlo.

Un punto su cui lei insiste molto è l’importanza dell’educazione.

Un tempo Israele si trovava sempre ai primi posti al mondo per risultati degli studenti. Vogliamo tornare a questo. Per quanto riguarda le scuole haredi, è importante che offrano anche studi secolari, matematica, inglese, come peraltro avviene per esempio negli Stati Uniti. In caso contrario non verranno più finanziate dallo Stato. Penso anche sia necessario che nelle scuole laiche si approfondiscano maggiormente gli studi ebraici. È nostra responsabilità costruire un paese aperto, in cui ciascuno possa sentirsi orgoglioso della propria identità ebraica. Questi cambiamenti richiedono tempo, ma stiamo andando nella direzione giusta.

Un altro tema che è emerso molto forte dopo le ultime elezioni è il rapporto tra Stato e religione, in particolare a proposito del matrimonio, che in Israele, per i cittadini di religione ebraica, è monopolio del Rabbinato ortodosso.
Quella del matrimonio è sicuramente la questione rispetto cui gli israeliani laici si sentono più a disagio. Dal canto suo, l’establishment ortodosso sottolinea come Israele sia uno Stato ebraico e il matrimonio rappresenti un momento spirituale chiave. Come risolvere il problema? La nostra proposta è quella di introdurre le unioni civili, con gli stessi diritti e doveri, in modo che ciascuno possa sceglierle in alternativa al matrimonio religioso sotto il controllo del rabbinato ortodosso che deve comunque percorrere una via di cambiamento per essere più attento alle esigenze delle persone. Ancora dobbiamo trovare una soluzione per chi vuole un matrimonio religioso, ma non ortodosso, tuttavia già con questo progetto, ci saranno migliaia di coppie che non sentiranno più l’esigenza di scappare a Cipro per sposarsi. E ciò comprende anche le coppie dello stesso sesso. Il che non significa chiedere che questa scelta sia riconosciuta nella vita ebraica ortodossa. Ma dobbiamo creare un paese in cui nessuno si senta un cittadino di seconda classe.

Lei insiste molto nel professare ottimismo anche di fronte alle questioni più complicate.

In tanti mi accusano di essere ingenuo. Ma a tutti gli scettici dico due cose. La prima è che stiamo facendo molto, ottenendo risultati concreti. La seconda è una storia personale. Trent’anni fa negli Stati Uniti, organizzavamo molte manifestazioni per chiedere che venisse permesso agli ebrei in Unione Sovietica di emigrare. Una volta, avevo 13 anni, mi trovai a tenere in mano un cartello: “Liberate Yuli Edelstein”. Parliamo di sogni? Oggi ho la benedizione di sedere nella Knesset presieduta da Yuli Edelstein. Settant’anni fa, mia nonna si trovava nel buio di Auschwitz. Oggi ha potuto vedere suo nipote membro del Parlamento di uno Stato ebraico. Noi dobbiamo credere. Abbiamo il dovere di pensare che possiamo ricevere il testimone degli incredibili uomini che hanno costruito questa terra, per farne un paese in cui tutti gli ebrei si sentano a casa, e una luce per tutte le nazioni.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, aprile 2014 twitter @rtercatinmoked

(11 aprile 2014)