L’identità? È finita nel guardaroba

ishot-571Di fronte a me è esposto un burqa nero, ornato da una mascherina color panna all’altezza del viso. Proviene da una comunità ebraica afghana di circa duecento anni fa ed è uno dei tipici indumenti indossati dalle donne arabe all’epoca. Accanto al burqa vi sono una modella, un fashion designer, due enormi riflettori e decine di fotografi. La modella sfila, indossando un capo d’abbigliamento che potrebbe facilmente essere scambiato per il pronipote del burqa afghano: un pezzo che, nonostante le forme ampie e la tinta unita nera, riesce a sottolineare la silhouette dell’indossatrice. Quella che potrebbe sembrare una giustapposizione rappresenta un modo del tutto nuovo di concepire il rapporto tra vecchio e nuovo, tra antico e moderno. Ci troviamo infatti all’Israel Museum di Gerusalemme, in occasione della presentazione della mostra Dress Codes: Revealing the Jewish Wardrobe (codici di abbigliamento: scoprire il guardaroba ebraico). I cento pezzi esposti (selezionati da una collezione di 10mila capi d’abbigliamento) sono tutt’altro che reperti archeologici. Nonostante risalgano principalmente al diciannovesimo secolo, rappresentano una storia – quella del guardaroba della tradizione ebraica della diaspora – che prosegue tuttora. Una realtà che comincia in India, in Iran e in Europa e che continua ad esistere ancora oggi all’interno della rinomata industria della moda israeliana.
Ciò che hanno ideato le due curatrici, Efrat Assaf-Shapira e Daisy Raccah Djivre, in occasione del lancio della mostra, è un revival del passato, una rivoluzione del concetto di museo: riunire sei tra i più importanti designer israeliani e assegnare a ciascuno di essi un capo d’abbigliamento a cui ispirarsi per creare una rivisitazione moderna del pezzo. A dare vita al progetto è stata la stilista Maya Kramer, che ha contattato i designer e ha seguito il loro processo creativo dal primo all’ultimo passo. “La cosa più emozionante è stato vedere il modo diverso in cui ogni designer interpreta ciò che vede”, mi ha raccontato. La moda forse non è ciò a cui si pensa quando si parla di storia ebraica, ma è senza dubbio parte di un patrimonio culturale e artistico che ha lasciato il segno in un numero molto elevato di paesi. E così come il modo di vestire del popolo ebraico è stato spesso influenzato dalle società circostanti, a sua volta esso ha influenzato le comunità non ebraiche: si tratta di un’azione bilaterale che ha permesso una notevole diffusione di valori e idee.
“Oggi la moda è trattata in modo molto commerciale: è un mondo veloce”, mi spiega Ilana Efrati, che ha creato un pezzo che rappresenta la fusione tra culture e identità differenti tipica della diaspora ebraica. La moda di oggi sarà anche basata sull’effimero dell’occasione e sul carpe diem, ma Ilana si definisce una “radicale” e da sempre naviga contro questa tendenza. Ispirata allo stile di vita italiano, che sperimenta per metà dell’anno da quando ha preso casa in Umbria, ha inventato il concetto di “slow fashion”, una moda lenta, duratura, che entri a far parte della cultura in modo da lasciare il segno. Alternando la frenesia urbana di Tel Aviv e la lentezza dell’incontaminato paesaggio umbro, Ilana Efrati è riuscita a trovare un suo equilibrio che sembra trarre ispirazione dagli antichi capi esposti all’Israel Museum. È facile dimenticarsi che la nostra cultura, le nostre influenze e le nostre mode sono frutto di una storia secolare, ma Dress Codes agisce da memorandum e lo dimostra in modo brillante e sottile.
Tra i capi antichi e quelli moderni emerge un legame intimo, quasi sanguigno. Spiccano un abito iraniano dalle influenze vittoriane, la veste del rabbino capo turco e un abito da sposa persiano ispirato al tutù del balletto francese. Innegabile, poi, il legame con il rito. Nelle comunità ebraiche dell’Impero Ottomano era infatti usanza donare alle sinagoghe i vestiti delle donne defunte e trasformarli in manti per i rotoli della torah: un modo per consacrare il ruolo centrale della donna all’interno della comunità anche dopo la sua morte.
All’uscita dalla mostra, faccio in tempo a chiedere a Yaniv Persy, designer del burqa nero rivisitato in salsa odierna, quanto sia stato difficile ispirarsi al capo d’abbigliamento afghano per creare qualcosa di indossabile oggi. “Difficile no, però è stata una sfida riuscire a trasmettere un messaggio antico attraverso un indumento moderno. Ho voluto mostrare il
contrasto tra la tradizione afghana, che vuole il corpo coperto, e la contemporaneità, che celebra invece la sensualità”. Mentre esco dalla sala e lancio un’ultima occhiata alle modelle, penso a Marinetti, che definiva i musei dei cimiteri, e vorrei che fosse qui a Gerusalemme, ad ammirare insieme a me la storia: non un capitolo chiuso, bensì un percorso in divenire.
(foto: Daniel Tchetchik)

Simone Somekh, da Pagine Ebraiche maggio 2014

(20 aprile 2014)