…kippot

Siccome la mia kippah era un po’ lisa, me ne serviva una nuova, e sono andato cercarne una al grande centro commerciale di Malca. Su un bancone c’erano diverse enormi pile di kippòt di tutti i tipi. Chi conosce bene Israele (non quelli che sbraitano dalla pianura padana o dalle sponde del Tevere) sa che la scelta della kippah è una delle più delicate operazioni di scelta identitaria. Dal tipo di kippah che uno porta si può capire se è molto strettamente religioso o un po’ ondeggiante verso il secolare, se è osservante di stampo mistico o razionalista, se è sionista o antisionista, a favore o contro lo stato binazionale, per che partito vota, e magari anche a che strato socioeconomico appartiene. Per il sottoscritto, dunque, inappropriata la kippah bianca gigantesca fino alle sopracciglia dei seguaci di Nahman di Uman, o quella nera lucida di raso degli ortodossi ashkenaziti, o quella di felpa nera con il bordino rosso e le stelle alpine dei loro bimbi, così come quella a uncinetto di formato extra-large dei residenti della Cisgiordania, o quella minuscola piatta tipo ciapino dei giovani provenienti da licei religiosi ma orientati verso il laicismo. Ma neanche mettibile quella a uncinetto di dimensioni normali colle righine o i disegnetti riconducibile al partito nazionale religioso, o anche quella a uncinetto tutta nera di proporzioni medie frequente fra i sostenitori di Shas, o quella più fantasiosa con un pallone di calcio o un grande delfino o un maggiolino poco adatta all’età, ma neanche quella a cilindro di stoffa pesante a colori violenti dei Curdi e dei Drusi. La scelta si orienta dunque su una kippah di pelle ruvida cucita in quattro quarti di colore sobrio scuro, adatta a un anziano professore non allineato politicamente. Voltata la kippah noto un minuscolo cartellino bianco che dice: Made in China.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(15 maggio 2014)