Bergoglio in Israele – Parla Abraham Skorka: “Insieme a Gerusalemme”
Il quotidiano della Santa Sede Osservatore Romano pubblica nell’edizione datata sabato 17 maggio in distribuzione nel pomeriggio un testo del rabbino argentino Abraham Skorka, rettore del Seminario Rabbinico Latinoamericano a Buenos Aires, che accompagnerà papa Bergoglio nella prossima missione in Israele e Medio Oriente. Nel testo Skorka racconta come è maturata l’idea del viaggio, si sofferma sul rapporto dell’ebraismo contemporaneo con l’ideale sionista e sottolinea l’imprescindibilità di un percorso dialogico che ha il suo fondamento nel Concilio Vaticano II e nella dichiarazione Nostra Aetate.
“Al di là delle differenze – scrive il rabbino – in questi ultimi 50 anni ebrei e cattolici hanno fatto un lungo cammino che richiede una continuità che permetta di avvicinare Roma a Gerusalemme e viceversa”. L’invito è quindi ad allontanarsi da ogni espressione “che conduca a un qualsivoglia sincretismo” e ad unirsi “in un fecondo dialogo fraterno”.
(Nell’immagine un simpatico fotomontaggio apparso sul sito del magazine ebraico americano The Jewish Tablet)
Le vie della pace
Tra qualche giorno, con l’aiuto del Signore, Papa Francesco visiterà la Terra Santa. Quando abbiamo parlato per la prima volta, a giugno dello scorso anno, della possibilità di tale viaggio, nella nostra conversazione è affiorato il termine «pellegrinaggio». Nella tradizione biblica questo termine si riferisce alle tre occasioni in cui, nel corso dell’anno, ogni ebreo doveva recarsi a Gerusalemme per presentarsi a Dio. Mentre nei culti pagani si doveva andare al santuario per vedere l’immagine della divinità, in quello d’Israele è l’uomo che deve presentarsi a Dio (Esodo, 34, 24; Deuteronomio, 31, 11). Perciò andare in Terra Santa, tornare a Gerusalemme, si riferisce a un atto d’introspezione più profondo, poiché in questa terra è impressa l’orma dell’essenza della nostra spiritualità, quella ebraica e quella cristiana.
D’altro canto, dalla seconda metà dell’Ottocento, la terra d’Israele è testimone dell’ultimo ricrearsi dell’essere ebreo nella sua plurimillenaria storia. Covavano allora in Europa quei mali che si sarebbero manifestati in modo terrificante nel secolo successivo. La vita degli ebrei in molte comunità della loro diaspora europea era diventata all’epoca insopportabile. Un velenoso sentimento antisemita portò a enormi tragedie, come i pogrom che devastarono i quartieri ebraici della Russia zarista tra il 1881 e il 1884 dopo l’assassinio di Alessandro ii, tra cui quello di Chisinau (1903) e il caso Dreyfus (1894-1906). Questi e altri avvenimenti spinsero gli ebrei a lasciare il continente. Molti trovarono condizioni di vita migliori in America. Altri pensarono che era giunto il momento di ritornare a Sion. Tale vocabolo, che designa uno dei monti su cui si erge Gerusalemme, viene utilizzato dal salmista (126, 1) per indicare il ritorno del popolo dall’esilio in Babilonia a cui lo costrinse Nabucodonosor. Le profezie del ritorno alla terra ancestrale, che appaiono in Isaia a partire dal capitolo 40 e in Ezechiele 37, come pure il giuramento presente nel salmo 137, rimasero impresse nella coscienza del popolo e il suo impegno verso di esse restò immutato di generazione in generazione. Per questo il movimento di ritorno a Israele fu chiamato sionismo.
Costruire una vita nuova nell’inospitale Palestina di allora, un lontano e abbandonato territorio dell’impero ottomano, era una scelta dura e difficile, che fu fatta da giovani pionieri che, con ardente idealismo, anelavano a ritornare alle proprie origini.
Al di là dell’antisemitismo e delle misere condizioni di vita delle masse ebraiche in Europa orientale, in tutto il popolo ebraico, sparso dallo Yemen all’Olanda, dall’Iran all’Africa del Nord, era latente un sentimento per la terra ancestrale, che ebbe allora un forte e imperscrutabile risveglio. Per centinaia di anni l’ebreo aveva recitato la sua preghiera più importante guardando verso Gerusalemme, invocando la sua ricostruzione e il ritorno a essa, sia del popolo sia di Dio. Alla fine dell’Ottocento molti ebrei sentirono di dover ricostruire le rovine del passato, per contribuire attivamente a trasformare le richieste delle preghiere in realtà.
Martin Buber fu uno di quei giovani che aderirono alla causa sionista. Insieme a Chaim Weizmann e a Berthold Feiwel, promosse la fondazione dell’Università ebraica di Gerusalemme, della quale fu docente. Partecipò a molti congressi sionisti e fu testimone e costruttore della rinnovata vita ebraica nella terra d’Israele.
Nel 1944, mentre viveva a Gerusalemme, Buber venne a conoscenza del drammatico destino dei quartieri ebraici d’Europa e, forse per prospettare un futuro di rinascita vitale per il popolo ebraico decimato dalla Shoah, pubblicò un saggio sull’ideologia sionista, intitolato Bein Am LeArtzo (“Tra il popolo e la sua terra”). Nel testo Buber si sofferma sul profondo significato che la terra d’Israele ha per il popolo ebraico nel suo rapporto con Dio. Pur comprendendo che il sionismo possiede caratteristiche comuni a qualsiasi movimento nazionale, trova in esso una dimensione metastorica, unica e trascendente.
Come in ogni altro movimento nazionale, il sentimento che emerge dalla coscienza storica del popolo verso la propria terra segnò la decisione di quanti s’impegnarono attivamente e politicamente a trasformare quella landa di terre, desertiche da un lato e paludose dall’altro, in un giardino, per un popolo che cercava di ricreare la sua plurimillenaria identità. Quanti cercarono solamente di risolvere il “problema ebraico”, espressione che definiva la situazione di una minoranza segregata e spesso duramente criticata, sia in Europa che altrove, scelsero di migrare verso luoghi dove sarebbero stati accolti meglio.
Fu allora ideato un piano migratorio che aveva come meta l’Argentina, sostenuto dal barone Hirsch, che lo sviluppò sulla base della politica immigratoria adottata da tale Paese nella seconda metà dell’Ottocento. La Gran Bretagna propose agli ebrei di stabilirsi in una zona dell’Uganda. La risposta che gran parte del popolo ebraico diede, dinanzi a tali proposte, fu il ritorno a Sion. Tale atteggiamento fu appoggiato da quanti osservavano la tradizione e le norme religiose, ma soprattutto da coloro che se ne erano allontanati e che conservavano una forte identità nazionale, in gran parte sostenitori di un’ideologia socialista.
Buber vi aderì ma capì che il passo da compiere doveva essere molto più grande. Nel suo testo chiarisce che l’unico luogo dove il popolo si può ricostruire come tale è la terra che Dio gli ha assegnato. Ma per poterlo fare pienamente deve «trovare» Sion, «la “Sion” occulta che rivelarono i profeti al tempo in cui la reclamavano. L’essenza della suddetta ricostruzione può essere individuata se si presta attenzione, come fa un architetto nel suo piano» (Bein Am LeArtzo, Jerusalem, Shocken Publishing House, 1944, p. 148). «Ci suicidiamo se dobbiamo cambiare la Terra d’Israele con un’altra, e ci suicidiamo se dobbiamo cambiare Sion nella Terra d’Israele» (p. 149).
Ritornare pienamente a Sion dovrebbe significare, seguendo Buber, ricreare il patto di Israele con Dio. La redenzione della terra ancestrale si trova implicitamente collegata con la redenzione dello spirito del popolo. Il testo biblico definisce la terra promessa al popolo d’Israele come il possesso che questi avrà e manterrà, come segno del suo patto con il Creatore, nella misura in cui adempirà la sua parte nell’accordo che ha fatto con lui. La sfida posta da Dio, attraverso i suoi profeti, di plasmare una società di giustizia, di rettitudine e di misericordia e d’impegnarsi profondamente nella ricerca delle dimensioni spirituali dell’esistenza, è la sfida che deve affrontare il popolo ebraico al ritorno alle sue origini, nel luogo in cui si trovano da sempre le sue radici, per la sua storia e, come spiega Buber, per disegno divino.
Per tornare pienamente a Sion il popolo ha bisogno di una realtà di pace che gli consenta di smettere di concentrare la propria attenzione e i propri sforzi sulla sua difesa, al fine di potersi guardare dentro. Quanti s’ispirano profondamente alla parola della Bibbia per trovare la propria fede, il proprio credo e i valori su cui costruire la propria vita, hanno dinanzi a sé la sfida di compiere uno sforzo sincero affinché nella regione il dialogo prevalga sulla violenza, il riconoscimento della fratellanza superi l’odio che acceca, perché nelle strade di Gerusalemme dimorino «anziani e anziane, ognuno con il suo bastone in mano, per l’età avanzata. E le vie della città si ritrovino piene di bambini e bambine, che giocano in esse» (Zaccaria, 8, 4-5).
Comprendo che il popolo ebraico in Israele e in tutte le comunità sparse nel mondo desideri dal Papa gesti che sappiano lasciare un segno indelebile, capaci d’ispirare tutti a forgiare la via che conduce alla materializzazione del sogno profetico che presenta Sion come l’epicentro mondiale della pace, dove le spade diventano vomeri e dove nessuno si esercita più per la guerra, come predisse Isaia (2, 4).
E d’altro canto desiderano un approfondimento del processo di riconciliazione e di dialogo avviato con Nostra aetate. Al di là delle differenze, in questi ultimi cinquant’anni ebrei e cattolici hanno fatto un lungo cammino che richiede una continuità che permetta di avvicinare Roma a Gerusalemme e viceversa. Dobbiamo allontanarci da ogni espressione che conduca a un qualsivoglia sincretismo e unirci in un fecondo dialogo fraterno.
Quando Papa Francesco sarà davanti al muro del Tempio, testimone inerme dell’opera e della passione di Gesù, il popolo ebraico si troverà accanto a lui. Come in passato, cercherà le vie per presentarsi al Signore, offrendogli il migliore dei doni: una realtà nella terra che egli possa benedire pienamente con la sua pace.
rav Abraham Skorka
(16 maggio 2014)