Tel Aviv, architettura da salvare
“Architettura e urbanistica non sono più solo patrimonio degli esperti, ma argomenti che toccano profondamente tutti i cittadini”. Le parole con cui Guido Vitale, coordinatore dei dipartimenti informazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha aperto la tavola rotonda su “La conservazione del moderno. Tel Aviv, Patrimonio dell’Umanità” corrispondono agli obiettivi dell’Urban Center di Torino. La struttura di presidio e supporto ai processi di trasformazione della città e dell’area metropolitana vuole essere anche un luogo di ricerca, formazione e confronto sui temi dell’architettura, del paesaggio e del dibattito urbano, e in occasione dell’anno dell’amicizia culturale Italia-Israele ha organizzato, in collaborazione con la Città di Torino e con L’ambasciata di Israele in Italia una serie di incontri dedicati all’architettura e alle città israeliane. Il primo appuntamento introduce allo straordinario patrimonio architettonico di Tel Aviv, che è stata nominata nel 2003 Sito Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Gianluigi Freda, architetto, è autore di “La collina della primavera. L’architettura moderna di Tel Aviv”, il volume pubblicato nel 2011 da Franco Angeli che racconta la storia della città israeliana nota per la sua incredibile concentrazione di edifici realizzati nei primi decenni del XX secolo dagli architetti ebrei giunti in Israele dopo aver studiato alla Bauhaus. Dopo aver lavorato con Eric Mendelsohn, Le Corbusier e Bruno Taut seppero adattare l’approccio modernista alle condizioni culturali e geografiche uniche della città bianca. Come scrisse Francesco Lucrezi in occasione dell’uscita del volume, le pagine di Freda, pur nel suo grande rigore scientifico, sono “scorrevoli come un romanzo” e altrettanto coinvolgente è stato il suo intervento, a partire dal ricordo di un giornalista francese – Albert Londres, che negli anni Venti partì alla scoperta degli ebrei e dei loro luoghi per incarico del quotidiano “Le Petit Parisien”. Un’inchiesta che lo portò da Londra al mondo degli shtetl di Russia, Transilvania, Bessarabia, Bucovina e Galizia, dove visitando gli insediamenti ebraici, potè testimoniare le difficili condizioni di vita e il diffondersi dell’ideologia sionista. Poi da Varsavia seguì le vie delle navi di emigranti, per arrivare alla neonata Tel Aviv. Freda ha mostrato alcune immagini precedenti alla nascita della città, e una fotografia del 1906 testimonia l’atto fondativo stesso della città bianca: alcune decine di persone partecipano all’estrazione dei lotti. Lotti di sabbia, di deserto. La maggior parte dei primi architetti che lavorano alla città provengono dall’Europa dell’Est, portatori dell’espressività eclettica di quel mondo, e diventano l’elemento di mediazione fra il nulla delle dune e la modernità che verrà in seguito. Sono infatti presto seguiti da una seconda generazione di architetti che – nel momento in cui l’epoca del Bauhaus in Europa viene chiusa dal nazismo – creano una intera città seguendone i principi. Il problema che resta oggi – come ha spiegato la professoressa Maria Adriana Giusti, docente di Restauro architettonico al Politecnico di Torino – è come conservare le case costruite allora senza dimenticare che sono abitate, vissute, e parte integrante del tessuto urbano. Come sia possibile “abitare il patrimonio”, infatti, è uno dei temi centrali che vengono affrontati quando ci si occupa di restauro architettonico del moderno, e le complessità che vi sono implicate sono da tempo oggetto di riflessione e studio. Ed è stato lo storico dell’architettura Carlo Olmo, direttore dell’Urban Center, a proporre al numeroso pubblico di leggere l’esperienza di coloro che abitano il Bauhaus come declinazione attuale del rapporto fra Storia e Memoria. “Nei complessi e multiformi processi di trasformazione culturale – ha aggiunto – è sempre necessario avere il coraggio di capire”.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(21 maggio 2014)