colpe…
Per lo Stato di Israele condannare degli assassini ebrei, come punire un capo dello Stato o un ministro fuorilegge, è un fatto assolutamente normale. È parte integrante della filosofia del diritto ebraico e della nostra etica plurisecolare. Giacobbe non risparmia neppure ai propri figli Shimon e Levi pubblica delegittimazione e punizioni per la vendetta perpetrata nei confronti di chi ha violentato la loro sorella Dina. Perché, allora, alcuni ebrei, soprattutto di una certa area politica e culturale, in queste tragiche circostanze, ci chiedono, in modo surrettizio di “discolparci” e di schierarci?
Come se si sospettasse una sedicente omertà, o addirittura un’indifferente complicità, del “mondo religioso” tout court, con una sciagurata violenza da parte ebraica. Scatta, in alcuni ebrei, una sorta di malsano meccanismo inquisitorio, così spesso abusato dagli antisemiti, del “discolpati David!”. Una perversa specularità dove l’ ebreo, in questo caso “religioso”, si vede costretto a presentare il certificato di buona condotta, ma questa volta non più agli antisemiti, ma ai suoi stessi fratelli ebrei.
In verità, e con buona pace di coloro che nutrono tali sospetti, nei media israeliani di ieri si metteva in evidenza quanto, in questa circostanza, la più dura tra le dichiarazioni di condanna sia stata quella del rav Levanon, rabbino circoscrizionale dello Shomron, che ha sentenziato addirittura la pena di morte (anche se non più operante nel diritto ebraico) per gli assassini del ragazzo palestinese, in base a quel dettame della Torah che dice: “..uviarta’ ara’ mikirbecha…”, “..ed estirperai il male da mezzo a te …” (Devarim, 21; 21).
Roberto Della Rocca, rabbino
(8 luglio 2014)