#IsraeleDifendeLaPace “L’eroismo delle piccole cose”

Caro Giuliano, cari amici del Foglio,
grazie per quanto fate abitualmente e per quanto avete fatto in questi giorni. Le ragioni di Israele contro il terrorismo sono le ragioni di tutti i cittadini, in Israele e nel mondo, che continuano a credere nel progresso, nella democrazia e nella convivenza fra culture e religioni diverse.
È ben vero come da voi evidenziato che le forze di difesa di Israele intervengono con la massima attenzione per tutelare tutte le popolazioni civili coinvolte e al solo fine di limitare gli effetti devastanti di forze terroristiche feroci e disumane. Le azioni di difesa di Tsahal sono molto difficili e rischiose non solo a causa del micidiale arsenale che hanno accumulato nell’indifferenza generale e grazie a molte complicità occidentali i terroristi di Hamas. Ma anche perché per tutelare al massimo le popolazioni civili significa assumersi rischi ulteriori che nessun esercito del mondo forse si assumerebbe.
Eppure al di là di questi giovani straordinari che tutti gli ebrei italiani considerano come i propri figli, i propri fratelli e le proprie sorelle, vogliamo ricordare, a tutti i colleghi che una guerra per la sopravvivenza e contro il terrorismo come quella cui stiamo assistendo non comporta solo le grandi gesta e le grandi sofferenze che molti giornali pongono in evidenza. Esiste una sofferenza diffusa che incombe su ogni cittadino israeliano. La sofferenza dell’ansia, la tortura di non godere mai di un momento di serenità, il veleno di vedere i propri figli infragiliti dalla paura.
Fra le centinaia di messaggi e di strazianti testimonianze che abbiamo pubblicato su Pagine Ebraiche e sui notiziari quotidiani online editi dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, mi sono fermato con commozione su un dettaglio apparentemente poco significativo dal racconto di Raphael Barki, un giovane ebreo cittadino italiano che vive con la sua famiglia e lavora a Tel Aviv: “Prima che scoppiasse questa guerra – ci scrive – comprai due biglietti per un concerto. L’idea di uscire con mia moglie dopo mesi (o forse sono già anni?) barricati in casa per prenderci cura dei bimbi mi dava piacere. Tanto potevamo contare fiduciosi sul baby sitteraggio dei nonni. Poi i primi missili. Si va al concerto o non si va? Dopo un po’ di titubanza decidiamo di non rinunciare. Usciamo. Telefoniamo per accertarci che il concerto non sia stato annullato. Tutto confermato. Primo allarme. Accosto con la macchina e ci precipitiamo verso la porta del palazzo più vicino per trovare riparo nel vano scale che, normalmente, come spiegato quasi ossessivamente sui media, ha i muri in cemento armato. Ma il portone è chiuso. Nel locale accanto, tutti i tavoli vuoti, un cameriere tranquillo con la sigaretta in mano, ci rivela il codice per aprire quella porta bloccata. Lui non entra. Finita la sirena bisogna aspettare al riparo ancora qualche minuto (dicono dieci) perché potrebbero piovere dal cielo Come micidiali frecce i detriti del missile eventualmente intercettato. Che si fa? Proseguiamo o rientriamo? Avanti! Ah! Avanziamo in macchina di pochi metri ed ecco un’altra sirena! Dietro front! Vogliamo abbracciare i nostri bambini e rilasciare i nonni…”.
Niente di drammatico, niente di sensazionale, rispetto a tutti i drammi cui questa guerra ci ha abituato, si dirà, eppure a me pare sia un crimine orrendo, raccapricciante, rubare a una giovane coppia che lavora un momento di gioia lungamente atteso. Abituarci a questa ingiustizia significa essere pronti a subire ogni ingiustizia. Anche per questo, per restituirci la piccola grande dignità di vivere a testa alta la nostra vita quotidiana di comuni cittadini, i ragazzi di Tsahal combattono contro i signori dell’odio.
Buon lavoro a te e a tutti i colleghi che non vogliono dimenticarsene.

Guido Vitale

coordinatore dei dipartimenti Informazione e Cultura
Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(Il Foglio 31 luglio 2014)