J-Ciak – Di chi è questo film?
Per qualche settimana il caso ha attirato l’attenzione della stampa. Poi è scomparso dai riflettori ma senz’altro se ne riparlerà tra poco, all’avvio del Festival del cinema di Venezia. La protagonista è Suha Arraf, filmaker palestinese, sceneggiatrice in passato di “La sposa siriana” e “Il giardino di limoni”, bei film entrambi diretti dall’israeliano Eran Riklis.
Questa volta è passata alla regia con “Villa Touma” che ha scelto di presentare alla Settimana internazionale della critica della Biennale cinema come film palestinese e non come israeliano. Peccato però che la pellicola sia stata per due terzi realizzata con contributi pubblici israeliani: nello specifico dell’Israel Film Fund, sostenuto dal ministero della Cultura, del Mifal HaPais (la Lotteria nazionale) e del ministero dell’Economia. E la bufera non si è fatta attendere.
Il ministro della Cultura Limor Livnat ha chiesto alla Arraf di restituire i fondi ricevuti (quasi 400 mila euro) e la regista, insieme alla direttrice dell’Israel Film Fund, è stata investita da un’ondata di critiche. La filmaker per ora non commenta, ma chi sostiene le ragioni della libertà artistica condanna duramente la levata di scudi del ministro e più in generale l’ingerenza della politica in una materia così delicata come quella culturale.
La questione è stata sollevata dal quotidiano Haaretz – per cui Suha Arraf aveva lavorato in passato come giornalista – che ha difeso le sue ragioni in un editoriale dall’inequivocabile titolo “Stop political persecution in Israel’s film industry”. Quasi scontato il rimbalzo a livello internazionale, amplificato dalla straordinaria sincronia con il dibattito legato alla guerra.
E allora, di chi è questo film? Il direttore del Film Fund Katriel Schory (che in un primo momento aveva definito la scelta di Suha Arraf spiacevole ma accettabile dal punto di vista contrattuale, poiché Israele è comunque nominata nei credit del film) sostiene che la presentazione di “Villa Touma” alla Biennale come film palestinese “è una chiara violazione degli accordi” e ricorda di aver contattato la produttrice e regista invitandola a cambiare la registrazione del film.
Dal canto loro I membri dell’Israel Film Council hanno respinto la proposta mediatrice del Fund di presentare “Villa Touma” come film “no country” e a larghissima maggioranza hanno votato per la restituzione dei fondi (“Rappresentiamo l’Israel Film Council e non quello di un altro paese. Il nostro obiettivo è incoraggiare e sostenere la produzione di film israeliani”, sarebbe stato uno dei commenti). Intanto il consulente legale del ministero della Cultura aveva pubblicato una nota secondo cui il ministero aveva diritto di riprendersi i soldi perché “l’investimento da parte dell’Israel Film Fund rappresenta un utilizzo di fondi per uno scopo diverso da quello per cui sono allocati”.
Un parere che secondo il ministro Limor Livnat conferma il sospetto iniziale che Suha Arraf “ha agito con grave cinismo quando ha chiesto che il suo film venisse riconosciuto e sostenuto come film israeliano mentre lo presenta all’estero come film il cui paese d’origine è la Palestina. Si tratta con chiarezza di una rappresentazione falsata da parte della filmaker”.
Un editoriale di Haaretz sottolinea come il governo israeliano dovrebbe imparare “ad accogliere tutte le complessità dell’identità dei suoi cittadini palestinesi, e in ogni caso prevenire interferenze politiche nelle istituzioni culturali dello stato”. “Grazie ai fondi per la cinematografia – continua – l’industria cinematografica israeliana porta la bella immagine di Israele nel mondo. Le interferenze politiche rischiano di oscurare questo lavoro e più in generale la cultura di Israele”.
In linea di principio si può anche essere d’accordo. Ciò detto, rimane la questione dei vincoli posti dal finanziamento e dell’uso di fondi pubblici (perché mai, si sono domandati molti, i contribuenti israeliani dovrebbero pagare un film palestinese?). In ogni caso la questione meritava ben altra eleganza e chiarezza da tutte le parti in causa. Soprattutto perché, se non altro alla luce dei precedenti lavori di Suha Arraf, il film valeva un’attenzione particolare.
La regista racconta infatti di tre aristocratiche sorelle cristiane di Ramallah che non accettano la realtà di Israele e la migrazione di massa dell’aristocrazia palestinese e si rinchiudono nella loro antica villa coltivando ricordi nostalgie. Finché arriva una nipote orfana, Badia. Bisogna accompagnarla in chiesa, ai funerali, ai matrimoni perché trovi marito e la vita d’improvviso cambia. Uno spunto nuovo ed eccentrico, che come già ne “La sposa siriana” e “Il giardino di limoni” filtra incontri, incroci e scontri mediorientali attraverso lo sguardo dei singoli. Forse un nuovo bel film, che si meritava una partenza meno velenosa.
Daniela Gross
(21 agosto 2014)