Solidarietà
“La durezza delle nostre posizioni nei confronti di Israele, in qualsiasi senso, nasce da una scelta libera e cosciente, o è il sostituto psicologico di problemi personali non risolti?”. Con questa e altre domande Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, chiudeva alcuni mesi fa un’assemblea comunitaria incandescente. Ci ho ripensato in questi giorni per via di un fatto straordinario: duecento ragazze e ragazzi israeliani, perlopiù provenienti dal martoriato Sud di Israele, hanno trascorso parte dell’estate tra Ostia, Fregene, Livorno e Trieste, ospiti delle varie comunità ebraiche, a loro volta sostenute da privati. Le strutture di ospitalità dell’Italia ebraica, quelle dove siamo cresciuti (per esempio la bellissima colonia di Opicina), si sono popolate di giovanissimi a cui i missili impediscono una vita normale, anche solo un bagno in piscina o una passeggiata tra amici.
Questa azione meritoria e straordinaria, compiuta dalla nostra comunità grazie all’attivismo dei suoi dirigenti, al coordinamento delle sue istituzioni, alla generosità dei suoi membri e alla professionalità dei volontari, ha avuto – così almeno mi è parso – visibilità poca o nulla. Si tratta invece di un’esperienza meravigliosa, a cui semmai andrebbe garantito un seguito, che costituisce probabilmente un modello per altre comunità in giro per il mondo. Kol Ha-Cavod. Un esempio di ciò che concretamente gli ebrei possono fare per Israele e che gli ebrei possono compiere l’uno per l’altro. In passato esperimenti analoghi furono organizzati per bambini israeliani e palestinesi assieme, e non è escluso che anche questa via possa essere percorsa nuovamente.
Ho incontrato vari volontari che hanno preso parte al duro lavoro di queste settimane, e nei loro occhi brilla ancora l’eccitazione e l’emozione. Di loro non parla nessuno. Preferiamo metterci a litigare tra di noi usando Israele come pretesto, per stilare liste di buone e di cattivi. Gli ebrei della Diaspora non possono fare molto per Israele, a parte ovviamente sostenerlo economicamente. Sbagliamo a ingigantire il nostro ruolo per gonfiare il nostro orgoglio. Ma ci sono piccoli contributi, piccoli gesti, che non salveranno Israele da una crisi drammatica, ma rimarranno nella testa e nei cuori di chi li ha vissuti. Per esempio duecento adolescenti del Sud di Israele. Vi pare poco?
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi
(26 agosto 2014)