Obama e Bibi, i destini paralleli
Durante l’operazione Margine protettivo il governo israeliano è stato ripetutamente accusato nei media locali di aver deteriorato le relazioni con gli Stati Uniti portandole ai minimi storici, mentre a livello internazionale la reazione israeliana agli attacchi di Hamas è stata spesso condannata per la sua mancanza di proporzionalità. Non è mia intenzione di entrare qui nel merito del rapporto personale tra i leader di due nazioni alleate, né dare un giudizio di valore sul modo in cui Israele ha condotto la guerra, quanto piuttosto segnalare le sorprendenti somiglianze tra la gestione del conflitto con Hamas da parte di Israele e la politica estera statunitense dell’attuale amministrazione democratica. Tutto lascia pensare infatti che Nethanyahu, contrariamente all’immagine di intransigenza diffusa tanto in Israele che all’estero, abbia dimostrato di essere nel corso dell’ultimo conflitto uno dei più tenaci fautori della cosiddetta ‘dottrina Obama’, quale è stata applicata dallo State Department nell’affrontare la crisi in Libia, in Ucraina, in Siria e in Irak. Si puo’ tentare di sintetizzare tale dottrina in base a tre principi guida. Il primo riguarda la netta preferenza accordata ad attacchi mirati dell’aviazione rispetto a ogni forma di azione che veda il coinvolgimento dell’esercito di terra. Così è stato in Libia, con l’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU di quanto è stato eufemisticamene chiamato “no-fly zone”, così è attualmente nelle missioni aeree contro postazioni degli insorti dell’ISIL in Irak e così sarebbe stato in Siria con la ventilata minaccia di attaccare alcune basi militari con missili lanciati da portaerei nel Mediterraneo, se il governo di Bashar El Assad in Siria non fosse venuto a più miti consigli, almeno in apparenza. Il secondo è volto al mantenimento degli equilibri di forza esistenti a scapito di ogni tentativo di rovesciare governi ostili e di forzare soluzioni non negoziate. Per gli Stati Uniti sembra che sia preferibile la persistenza di una situazione conflittuale, ad alta o bassa intensità, tra l’Ucraina di Porošenko e la Russia di Putin, tra sciiti e sunniti in Medio Oriente, che la prevalenza di un bando sull’altro.
Infine il terzo principio è improntato alla ricerca di una coalizione quanto più ampia possibile a livello internazionale per sostenere il raggiungimento degli obbiettivi strategici espressi in termini di difesa nazionale e non di giustizia assoluta. Come ha dichiarato Obama in un discorso all’accademia di West Point nello scorso maggio “gli Stati Uniti faranno ricorso alla forza militare, se necesario anche unilateralmente, se i nostri interessi fondamentali lo richiedono: quando i nostri cittadini sono minacciati, quando i nostri interessi vitali sono in gioco, quando la sicurezza di un nostro alleato è in pericolo”. I corollari di tale dottrina sono azioni militari contenute e di breve durata, una diplomazia inclusiva e attenta a non sottovalutare gli interessi geopolitici di tutti gli attori coinvolti nelle aree di conflitto, compresi quelli degli avversari, un discorso politico che pone l’accento sulla difesa dei propri civili piuttosto che sulla sconfitta del nemico.
Il Consiglio di sicurezza israeliano, a cui partecipano ministri dei diversi partiti della coalizione al governo, ma che in ultima istanza rispecchia la volontà del primo ministro Nethanyahu e del ministro della Difesa Moshe ‘Bogie’ Yaalon, pare abbia applicato alla lettera la dottrina Obama in tutte le fasi dell’operazione Margine protettivo. La ritrosia a ingaggiarsi in un conflitto non voluto né desiderato da Israele si è manifestata fin dall’inizio facendo trascorrere vari mesi prima di reagire militarmente l’otto luglio scorso alla pioggia di missili di lunga gittata lanciati dalla striscia di Gaza, intensificatasi notevolemente a partire da giugno. Poi, fedele alla massima coniata da Nethanyahu e ripetuta in queste ultime settimane, “Sheket Yeane Be- Sheket Ve-Esh Teane Be-Esh” (alla calma si risponderà con calma, al fuoco col fuoco), per oltre una settimana Zahal ha proceduto a bombardamenti aerei circoscritti alle infrastrutture militari di Hamas, nel tentativo di dissuadere l’organizzazione terrorista di proseguire le ostilità.
Solo quando quest’ultima ha preso di mira vitali interessi strategici del paese, cercando di colpire oltre alla tre principali città del paese, Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa, anche l’aereoporto internazionale ‘Ben Gurion’, il 17 luglio è stata approvata la decisione di intraprendere un’azione militare terrestre, specificando in modo chiaro ed inequivocabile però che essa sarebbe stata limitata nel tempo e che non si poneva come obiettivo il rovesciamento del governo di Hamas, né la conquista della striscia di Gaza – sia detto per inciso entrambi obbiettivi del tutto raggiungibili da un punto di vista strettamente militare per l’esercito israeliano – ma unicamente la distruzione dei tunnel che Hamas aveva costruito in vista di attacchi sul territorio israeliano.
Una volta questo obiettivo raggiunto, il 5 agosto l’esercito israeliano si è ritirato da tutto il territorio di Gaza, riprendendo posizioni difensive lungo il confine, mentre il governo cercava di raggiungere un cessate il fuoco durevole nel corso di serrate trattative al Cairo protrattesi sino al 26 agosto con numerose interruzioni, su cui pesavano i pareri oltre che delle potenze regionali con interessi convergenti con quelli israeliani, come l’Egitto e l’Arabia Saudita, anche quelle di stati dichiaramente favorevoli a Hamas, come il Qatar e la Turchia. Israele, non diversamente dagli Stati Uniti nella crisi libica o irakena, sembra non volere gestire il dopoguerra da solo, ma mobilitare quanti più alleati in un’azione collettiva per ricostruire Gaza, primo tra tutti il governo dell’autorità palestinese di Mahmud Abbas. Che queste non siano state semplicemente mosse tattiche influenzate da una mappa politica, tanto interna che estera estremamente instabile e aleatoria, ma frutto di una linea politica di ampio respiro lo dimostra tra l’altro la scarsa reattività alle ripetute violazioni da parte di Hamas delle tregue proposte unilateralmente da Israele, anche a costo di un elevato prezzo politico nella popolarità del governo presso la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana, che avrebbe preferito sbarazzarsi una volta per tutte della minaccia islamista. Non va dimenticato che Nethanayhu si trova oggi in una posizione molto simile a quella che deve affrontare Barak Obama nel corso del suo secondo mandato presidenziale, attacato alla sua destra dall’ala più intransigente del Partito Repubblicano che invoca invece una maggior risolutezza e aggressività nella politica estera americana, e criticato a sinistra, per voce di probabili candidati alla sua successione nel partito democratico, di non fare abbastanza per difendere i diritti umani in Siria e le minoranze minacciate di sterminio in Irak. “Il male esiste, la promozione dei diritti umani non può essere solo un’esortazione. La dura verità è che non sradicheremo i conflitti violenti nel corso della nostra vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni, da sole o di concerto, troveranno l’uso della forza non solo necessario ma moralmente giustificato… al Qaeda non puo’ essere convinta dai negoziati a deporre le armi. Dire che la forza a volte è necessaria non è un incitamento al cinismo – è il riconoscimento della storia”. Con queste parole Barak Obama ammetteva la legittimità del concetto di guerra giusta nel suo discorso di accettazione del premio Nobel per la Pace il 10 dicembre del 2009. La sfida per Obama non era tanto abolire la guerra come mezzo di risoluzione di conflitti bensì di contenerla quanto più possibile come ultimo ricorso nella difesa dei propri interessi vitali. “Parte della nostra sfida” proseguiva Obama nella sua prolusione “è riconciliare queste due verità apparentemente inconciliabili, cioè che la guerra oltre ad essere deprecabile qualche volta è anche necessaria”. Dovrebbe quindi essere chiaro che sia Obama che Nethanyahu non sono animati da un eccessivo ottimismo rispetto al potenziale irenico del nuovo ordine politico emerso con la fine della guerra fredda e dal trauma posteriore all’undici settembre. Se da un lato si puo’ lamentare la mancanza di una visione a lungo termine, dall’altra entrambi sembrano poco inclini all’avventurismo politico e a lasciarsi trascinare da retoriche oltranziste, tanto care a radicali di ogni bordo, nostalgici di guerre totali senza compromessi. Nello scacchiere su cui operano, privo di immediate vittorie e soluzioni concrete, dove la prudenza è d’obbligo e il temporeggiamento spesso una virtù, occorre soprattutto dubitare di tutti coloro che sbandierano, tanto a destra come a sinistra, il monopolio del rigore morale e dell’indignazione.
Asher Salah, Pagine Ebraiche settembre 2014
(27 agosto 2014)