Israele – Il voto e le questioni sociali
Mentre l’Autorità palestinese continua la sua battaglia diplomatica all’Onu, la politica israeliana cerca di rispondere alle esigenze dei suoi cittadini su un altro fronte, quello economico e sociale. I dati pubblicati dal Bituah Leumi (l’istituto della previdenza sociale di Israele) raccontano di un paese che, seppur con indicatori economici positivi, stenta a trovare soluzioni al problema della povertà: secondo i parametri del Bituah Leumi, infatti, 1,6 milioni di israeliani si trovano al di sotto della soglia della povertà. Dall’indagine emerge che il 18,6% delle famiglie israeliane nel 2013 si trovava al di sotto di questa linea immaginaria del benessere sociale, contro il 19,4% del 2012. Un miglioramento si è dunque registrato ed è dovuto, spiegano dall’istituto previdenziale, ad un incremento delle persone entrate a far parte del mercato del lavoro e a un maggior sostegno da parte del sistema di welfare israeliano alle fasce più deboli della società. Su questi punti, assieme alla diminuzione del costo della vita, si giocherà molto della campagna politica israeliana per il voto del prossimo 17 marzo. E molti commentatori leggono in questa chiave la decisione del premier Benjamin Netanyahu, a tre mesi dalle elezioni, di appoggiare la legge sull’aumento del salario minimo, portandolo a 5000 Shekel (1036 Euro), un’iniziativa già presa a inizio dicembre dall’Histadrut (il gigantesco sindacato israeliano) e l’associazione costruttori edili di Israele. Nel 2010, ricorda Yedioth Ahronot, Netanyahu si oppose inizialmente all’idea di aumentare il salario minimo fino a 4600 shekel. Il provvedimento era firmato da Amir Peretz, diventato nel 2013 ministro dell’ambiente dell’ultimo governo Netanyahu per poi abbandonare a novembre di quest’anno l’esecutivo in polemica con la configurazione data al bilancio 2015.
Tornando ai dati riguardo alla povertà un miglioramento si è registrato anche all’interno della popolazione arabo-israeliana, che assieme al mondo ultraortodosso costituisce una delle due realtà più economicamente a rischio, con una diminuzione della percentuale dei “poveri” dal 54,3% del 2012 al 47,4% del 2013. La loro partecipazione al mondo del lavoro, così come nel caso del mondo haredi, costituisce un tema chiave per l’economia israeliana. “Per quale motivo la bassa partecipazione al mondo del lavoro rappresenta un freno alla crescita economica?”, si chiedeva in un articolo pubblicato su Pagine Ebraiche (Dicembre 2013) l’economista Aviram Levy. “Da un lato il fatto che due minoranze che contano 2-3 milioni di persone (ultraortodossi e arabi) su una popolazione complessiva di 8 milioni abbiano una percentuale elevata di popolazione che fa ricorso sistematico alla pubblica assistenza rappresenta un drenaggio di risorse dalle casse dello stato; – spiegava Levy – basti pensare che sono queste due minoranze che rappresentano il grosso di quel 20% di israeliani che vive sollevata . Dall’altro lato un’economia che vuole mantenere tassi di crescita elevati ha bisogno di una continua immissione di manodopera giovane e istruita, da impiegare in settori ad alta produttività (come l’high tech) e che produca reddito, che consumi e crei ricchezza. Senza questa immissione di capitale umano l’economia israeliana perderebbe un importante propulsore”. Come nel 2013, la sfida è di nuovo sul tavolo della campagna elettorale. E nelle prossime settimane le componenti politiche in corsa per il voto cercheranno di dare le proprie ricette.
Daniel Reichel
(22 dicembre 2014)