Bioetica ed etica medica a Gerusalemme
Centinaia di partecipanti da tutto il mondo, dall’Europa alle Americhe, dall’Africa all’Asia e all’Australia, oltre che ovviamente da Israele, si sono riuniti negli scorsi giorni a Gerusalemme per i lavori del decimo Convegno internazionale Unesco sulla Bioetica, Etica medica e legislazione sulla salute, che era stato preannunciato nel numero di gennaio di Pagine Ebraiche.
L’incontro si è articolato in cinque sessioni parallele, mattina e pomeriggio, per discutere dei problemi etici connessi con i trapianti d’organo e le tecniche di riproduzione assistita, con la medicina legale e l’etica militare, con la eutanasia e il trattamento dei malati terminali, passando per la terapia del dolore, l’uso medico di droghe e la legittimità delle campagne pubblicitarie delle case farmaceutiche, e tanti altri argomenti troppo numerosi da elencare.
Diversi partecipanti dall’Italia, fra cui il dottor Cesare Efrati (nella foto), gastroenterologo all’Ospedale Israelitico di Roma, nonché maskil diplomatosi al Collegio Rabbinico Italiano e chazan/gabbai del Tempio Maggiore di Roma. La relazione da lui presentata verteva sulle problematiche etiche legate alla terapia di gravi malattie infettive come quella causata dal virus Ebola. Possono (o devono) medici e paramedici mettere a rischio la propria vita per curare i pazienti affetti da questo virus? E per quanto riguarda parenti e amici che desiderano visitare il malato? Come è affrontata questa situazione dal punto di vista della halakhà, la legge ebraica? In un’ottima e circostanziata relazione il dottor Efrati, dopo aver illustrato le modalità di trasmissione del virus e i danni alla salute che esso provoca, spesso letali, ha affrontato le diverse posizioni emerse nel mondo rabbinico dei secoli passati fino ad arrivare alle decisioni dei massimi esperti di bioetica ebraica della nostra epoca. Il dilemma etico ha origine dalla necessità di bilanciare il dovere morale e religioso di curare il malato e di fargli visita con quello di preservare la propria vita e salute. Il Ramà (rav Moshè Isserles, Cracovia XVI secolo), che è uno degli autori dello Shulchan Arukh, il codice basilare della legge ebraica, scrive che, riguardo al dovere di visitare i malati, non si differenzia fra malattie infettive e non, eccetto che in casi molto particolari. Rav Chaim Palaggi (Turchia XIX secolo), viceversa, stabilisce che non c’è l’obbligo di far visita a un paziente affetto da una grave malattia se ciò può essere pericoloso per la propria vita. Riguardo ai medici e agli infermieri, rav Eliezer Waldenberg (l’autore dello Tzitz Eliezer, scomparso alcuni anni fa), scrive che essi hanno certamente il permesso di mettere a rischio la propria salute per la cura di persone affette da gravi malattie infettive e che tale atto è considerato l’adempimento di un precetto religioso, benché non ne siano obbligati. Invece, un altro grande esperto contemporaneo, rav A. S. Abraham (autore del Nishmat Avraham), ritiene che coloro che hanno scelto la professione medica, sapendo bene fin dall’inizio che ciò può comportare un rischio per la propria salute, hanno il dovere etico e religioso di fare di tutto per la cura dei malati, anche quelli affetti da gravi malattie infettive, prendendo ovviamente tutte le precauzioni del caso. Come si vede, le posizioni sono diverse, ma tutte improntate al rispetto della santità della vita. Chazaq a Cesare!
Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano
(19 gennaio 2015)