La mia risposta al rav Di Segni
Gli interventi del rav Giuseppe Laras (Corriere della sera, 13 gennaio) e del priore Enzo Bianchi (La Stampa, 18 gennaio) avevano suscitato una presa di posizione del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che denunciava sul nostro notiziario quotidiano il pericolo, da parte cristiana, di una lettura a senso unico delle Scritture (29 gennaio). Oggi, sempre sul notiziario quotidiano, la risposta del priore.
Non sono solito rispondere a critiche e obiezioni ingiuste ai miei interventi sulla stampa, ma l’amicizia e la stima che nutro verso rav Giuseppe Laras e verso rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, con i quali ho tenuto conferenze e dibattiti, mi chiedono di ritornare su alcune mie affermazioni apparse nell’articolo pubblicato su La Stampa il 18 gennaio scorso e di interloquire rispettosamente con l’intervento di rav Di Segni su Pagine ebraiche 24 del 29 gennaio.
Lo faccio in ritardo, essendo venuto a conoscenza di tale intervento solo pochi giorni fa. I lettori che hanno seguito il dibattito non hanno bisogno che lo ripeta qui. Nel mio articolo affermavo semplicemente che sul tema della terra e dello Stato di Israele non pare esserci comprensione della posizione cristiana da parte degli ebrei. Questa mia affermazione ha suscitato le reazioni di rav Di Segni, alle quali per chiarezza voglio rispondere (me ne scuso con i lettori!) attraverso punti precisi.
Rav Di Segni denuncia una mia incomprensione del rapporto tra il popolo di Israele e la terra di Israele. Non mi sembra sia quanto da me espresso nel mio intervento. Scrivevo solo che noi cristiani abbiamo un’altra comprensione, ma non negavo la comprensione che Israele ha del suo rapporto con la terra che, secondo la Torah, è stata promessa e data ad Abramo e alla sua discendenza. Come può rav Di Segni pensare che io neghi le promesse divine, che non dia ascolto obbediente alla parola di Dio contenuta nelle Scritture di quello che per noi cristiani è Antico Testamento e per gli ebrei Tanakh? Certo, a questo proposito le ermeneutiche cristiana ed ebraica divergono, ma non spetta a noi cristiani indicare o insegnare a voi l’ermeneutica diversa! Noi cristiani non abbiamo né terra né patria, ma io non ho mai pensato di negare le promesse di Dio fatte a Israele e il dono della terra, l’esodo e il dono della conquista, l’esilio e il ritorno, dinamiche di storia di salvezza in cui si rivela il Dio che è Go’el, Salvatore, il Dio in alleanza, la cui fedeltà verso il suo popolo non viene meno.
Qui devo confessare che mi sento ferito da rav Di Segni, quando mi accusa con queste parole: “Come Bianchi non capisce il rapporto di Israele con la terra d’Israele, così noi non riusciamo a capire (o meglio, troppo bene la comprendiamo…) questa sua ostinata negazione di matrice cristiana (sarebbe meglio dire cattolica) di un elemento fondamentale della fede di Israele basato sulle Scritture, che pure sono i testi che dovremmo condividere”. No, caro rav, questo non può dirlo, e tanto meno accusare che una tale visione sia di matrice cattolica (quando proprio la chiesa cattolica è quella che più ha dialogato e dialoga con voi ebrei). Proprio perché noi cristiani non siamo un sostitutivo di Israele, non abbiamo una terra, e la terra di Israele possiamo certo chiamarla santa, ma non è e non può essere nostra e noi, quando vi andiamo per far memoria dei luoghi santi, ci sentiamo ospiti di Israele. Questo la chiesa cattolica dal Concilio in poi lo ha affermato e io lo ribadisco. Le dirò di più: a differenza di molti cristiani, da sempre ho interpretato il ritorno ebraico a Sion come qualcosa di teologicamente significativo; anzi io dico “escatologico”, anche perché il vangelo secondo Luca avverte noi cristiani: “Gerusalemme sarà calpestata dai gojim finché i tempi dei gojim non siano compiuti” (Lc 21,24). Dunque, secondo la profezia di Gesù il tempo dei gojim ha una fine e il ritorno degli ebrei nella terra ne è un segno. Tuttavia, occorrendo una qualità profetica per interpretare questo evento, ho sempre preferito essere discreto o tacere. Pertanto, su questo punto – e lei mi ha ascoltato altre volte – non comprendo la sua accusa.
Quanto invece allo Stato di Israele, noi cristiani, che con molta fatica abbiamo imparato a distinguere Cesare da Dio, la fede dalla politica, e soprattutto come cattolici sentiamo estranea ogni commistione tra stato e fede, tra nazione e chiesa (anche se, ahimè, l’abbiamo praticata fino allo Stato pontificio!), non abbiamo “parole cristiane” da dire, ovvero non possiamo darne una lettura teologica. La messianicità cristiana non ha bisogno né di patria né di Stato, ma non neghiamo che voi ebrei abbiate diritto anche a un assetto politico e statale: appartiene a voi e alla vostra responsabilità la sua edificazione nella giustizia, nella pace e nella solidarietà con gli altri, non ebrei. Noi cristiani per voi siamo i gojim, le genti, e voi stessi affermate che non possiamo essere ebrei, anche se comunità cristiane abitano nella terra di Israele da duemila anni come vostri fratelli gemelli.
Caro rav Riccardo, quanto al giudaizzare, sono un monaco che ogni giorno prega con voi i Salmi e unisce la sua voce alla vostra preghiera, non mi fraintenda dileggiandomi: giudaizzare non è cantare la Qedushah, celebrare la Pasqua o la Pentecoste cristiane, né ricorrere all’esegesi rabbinica, ma per me è il frutto di una voracità cristiana che tutto vuole prendere dagli altri, senza rispetto e senza lasciare che l’altro resti tale, è essere cristiani e voler sembrare ebrei.
Un caro saluto e l’assicurazione del mio impegno di ascolto, di dialogo e di rispetto per la vostra presenza e la vostra storia che noi cristiani tante volte abbiamo reso amara.
Enzo Bianchi
(12 febbraio 2015)