Urtisti, un piano per il rilancio
“Facciamo parte del tessuto storico-sociale della città. E per questo vogliamo essere protagonisti del suo rilancio”. A parlare è Fabio Gigli, presidente degli urtisti, i venditori di ricordi (a carattere religioso e non) istituiti nell’Ottocento a seguito della concessione di una dispensa papale agli ebrei romani. La categoria affronta giorni incerti, in attesa di capire cosa sarà del suo futuro. C’è preoccupazione, ma anche la consapevolezza delle proprie potenzialità. Un know-how da veicolare sfruttando anche le strade offerte dalle moderne tecnologie.
Presidente, in questi ultimi tempi l’attenzione verso gli urtisti è stata molto forte. Articoli di giornale, una mostra che ha permesso di conoscere il glorioso passato della categoria. Si sente tutelato?
La mostra ha messo in evidenza la storicità degli urtisti: un patrimonio imprescindibile da cui partire. Ma vogliamo avere anche un futuro e il futuro passa dal rendersi sempre più utili per la città. Fermo restando il fine commerciale, quello che ci dà il pane per vivere, è nostra intenzione sopperire a una lacuna sotto gli occhi di tutti: la desertificazione di servizi nell’area archeologica. A Roma la gente viene, ma nessuno si preoccupa di accoglierla. Chi meglio di noi, che siamo sul campo tutti i giorni e che di questa città conosciamo storie, personaggi e segreti, potrebbe candidarsi a svolgere la funzione di infopoint per i milioni di turisti che ogni anno accorrono nella Capitale? Non è una suggestione, ma un progetto concreto.
Il tema del degrado è sempre più vivo nel dibattito pubblico. Cosa risponde a chi sostiene che gli urtisti ne siano in parte gli artefici?
Che questa interpretazione non ha riscontri nella realtà. Ci sono categorie aggressive, che hanno imbruttito la città, ma noi siamo ben altra cosa. Inutile girarci attorno: l’illegalità è diffusa e il turista è tartassato di continuo. Ma certamente non dagli urtisti, che oltre ad essere pochi come numero sono in prima linea nella denuncia dei comportamenti non conformi. Questo deve essere chiaro.
E lo è?
Non sempre, visto che spesso – quando si parla di degrado nel centro storico – si fa confusione tra categorie e situazioni diverse. Anche per questo, per vincere l’ignoranza e il pregiudizio diffuso, abbiamo bisogno di rilanciarci. Con nuove formule, con nuove idee, sfruttando le nostre competenze e le possibilità offerte delle moderne tecnologie. Lo spazio c’è. Se si vuole dare un taglio alle bruttezze di Roma questo è il momento.
Da alcune settimane è attiva una pagina Facebook dedicata al mondo degli urtisti in cui si raccolgono frammenti di storia e si racconta la vita quotidiana di chi ha un banco.
Si tratta di un veicolo sufficiente?
La pagina è un punto di partenza, che contiamo di implementare nelle prossime settimane. Ma anche altre iniziative sono allo studio, nella galassia del web e nel mondo dei social. Stiamo attivando tutte le nostre energie a riguardo, a breve ci saranno delle novità.
Lei è presidente da oltre venti anni. È questo il momento più difficile attraversato dalla categoria?
Sì, credo di sì. Ma sarebbe sbagliato pensare a un passato tutto rose e fiori: tutt’altro. Chi lavora per strada è a contatto, quotidianamente, con situazioni complesse. Ogni giorno si lotta per garantirsi la sopravvivenza, ogni giorno è una conquista. Ricordo che anche mio padre soleva lamentarsi dell’abusivismo e di altri problemi che investivano il suo lavoro. E si parla di un po’ di tempo fa.
Come è diventato urtista?
Essendo un lavoro che si trasmette di generazione in generazione ho ritenuto di proseguire nel solco di chi mi ha preceduto. In realtà avrei dovuto fare scelte diverse, supportato da una famiglia che spingeva perché potessi percorrere altre strade. Mi sono laureato in Scienze Politiche, ma in quegli anni i concorsi di un certo tipo erano bloccati. Quindi ho preso mio padre da parte e gli ho detto: ‘Faccio l’urtista anch’io’.
In una categoria fortemente caratterizzata dal punto di vista identitario lei non solo è l’unico non ebreo ma è anche l’ambasciatore delle istanze di tutti i suoi colleghi. Una cosa curiosa, non trova?
Può essere, ma l’aspetto del credo religioso è proprio secondario. Non esiste un ‘noi’ e ‘voi’, è una cosa che non ho mai avvertito. Tra l’altro molte persone che frequento pensano che io sia ebreo.
Adam Smulevich