Qui Gerusalemme – Il Seminario di Ye’ud A confronto con Sergio Della Pergola
“Le elezioni in Israele del prossimo 17 marzo sono complesse e rischiose”. Ad introdurre l’argomento più caldo del momento è il demografo Sergio Della Pergola che apre i lavori di una nuova giornata di Ye’ud, il seminario per formare i leader del futuro organizzato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con il supporto della World Zionist Organization.
Della Pergola sottolinea infatti la specificità di Israele, uno dei venti paesi più sviluppati al mondo che pure cerca continuamente di “non retrocedere in serie B”.
“Ci sono tre grandi assi sui quali si giocano le elezioni – spiega – Il primo è la sopravvivenza fisica dello Stato e la sua difesa. Il secondo è legato al cosiddetto ‘problema ebraico’ e si basa su un grande dilemma: il paese deve essere governato come Stato laico o religioso? Mentre il terzo, quello che lo accomuna agli altri, è l’economia, la distribuzione equa delle risorse, la trasparenza”.
Un quarto tema, aggiunge, è poi il rapporto con la Diaspora: “Israele deve avere o meno la responsabilità degli ebrei che vivono nel resto del mondo? C’è infatti qualche israeliano che pensa: se fate l’aliyah d’accordo, sennò, non siete un mio problema”.
Il demografo affronta poi la questione in termini numerici: “Nel 1945 viveva in Palestina mezzo milione di ebrei, oggi sei milioni e 100mila cioè il 43% degli ebrei in totale. Questo porta a pensare che tra 10/15 anni potrebbero vivere nel paese più della metà degli ebrei di tutto il mondo. Nello specifico gli ebrei italiani che si trasferiscono in Israele non sono un numero sbalorditivo, non possiamo parlare di esodo, eppure questo è un fenomeno costante. Come abbiamo rilevato da una ricerca pubblicata anche su Pagine Ebraiche, i 2/3 degli ebrei italiani percepiscono l’antisemitismo, soprattutto sul web. Ma ad entrare in gioco sono contingenze economiche. Quasi tutte le persone che si trasferiscono in Israele vengono per lo più integrate nel paese”.
Poi aggiunge: “Negli ultimi mesi, dopo diversi attacchi terroristici che hanno colpito gli ebrei d’Europa, il dibattito ‘aliyah sì aliyah no’, si è accesso ancora di più: c’è chi ha detto che non bisogna andare in Israele per paura e viceversa. Io credo che siamo abbastanza grandi per fare quello che crediamo migliore. Penso che non importi se uno si vuole trasferire o meno o perché. Arrivati a questo punto, nessuno dovrebbe dirci dove andare e cosa fare”.
Della Pergola entra poi nel vivo delle elezioni: “Io definisco il sistema elettorale israeliano un metodo suicida che porta alla costituzione di un governo continuamente debole. Nel paese ci sono troppi partiti. Il sistema è monocamerale e con le liste bloccate: chi vota non può esprimere la preferenza ma deve subire delle elezioni interne da parte dei partiti che fanno una classifica dei candidati. Stando agli ultimi sondaggi questa sarebbe la ripartizione dei seggi: 24 per i laburisti, 21 per il Likud, 13 per i tre partiti arabi che si sono unificati in uno solo, 12 per Yesh Atid di Lapid, 11 per Kahlon, 11 per la lista di Bennett, 7 per il religioso Shas, 6 per i haredim di Yaduth HaTorah, sei per Meretz, 5 per Yachad, e 4 per Israel Beiteinu di Lieberman”. Quando il partito vincitore si troverà a dover formare una coalizione, osserva il demografo, sarà destinato a dare vita ad un governo debole che terrà fermo il paese ancora e la situazione continuerà ad essere pericolosamente instabile. “La vera soluzione – conclude – sarebbe cambiare il metodo elettorale”.
I partecipanti di Ye’ud si spostano poi a Gush Etzion. Il direttore del dipartimento di Educazione e Cultura dell’UCEI rav Roberto Della Rocca spiega il motivo della visita: “Questi territori, da molti definiti ‘occupati’, hanno un significato particolare sia in campo storico che politico, l’insediamento che vedremo è nato fin dal 1927, molti anni prima di Israele. A Hebron sono sepolti i patriarchi. Quello che vorrei farvi vedere, è l’altra faccia di questa zona che non è, come molti credono, il Far West”.
La prima tappa è quella alla yeshiva femminile Migdal Oz creata da Shmuel Wygoda, filosofo originario di Parigi. “Benvenuti a Migdal Oz – esordisce Wigoda – la yeshiva dedicata alle donne che fino a trenta anni fa sembrava un luogo impossibile. Per i più religiosi è infatti vietato che le donne studino e approfondiscano il Talmud. L’ispirazione è nata da una prima scuola aperta a New York. Il punto di svolta però è stato un altro: anni fa mia figlia mi ha chiesto di poter studiare e io, non sapendo dove poterla mandare, le ho creato la scuola. L’ho fatto anche per mia madre che ogni volta mi ricordava quanto fossi stato fortunato ad aver studiato. Entrare nella yeshiva è molto difficile, alle ragazze è richiesta una conoscenza di base in materie ebraiche piuttosto alta. Abbiamo la seconda biblioteca di judaica (ebraismo) più grande al mondo”.
“In cosa è diversa Migdal Oz? – si chiede Wygoda – se guardate come è sala adibita a tempio, vi accorgerete che la parte nella quale devono pregare i maschi è piccolissima mentre quella delle donne molto più grande. Questo è il primo posto in Israele dove le donne possono studiare come gli uomini”.
I partecipanti si spostano poi al Machon Tzomeret Institute for Halakhah and Technology nel quale vengono elaborate idee per creare tecnologie che si possono usare anche durante shabbat come ad esempio il Maalit Shabbat, l’ascensore automatizzato del sabato.
Tutto può essere connesso con la Torah e il grande dilemma del rapporto con la tecnologia viene analizzato fino ai minimi termini. Ogni strumento creato, dal campanello dell’ospedale al meta detector posizionato all’entrata del Muro del Pianto, cerca di rispettare i divieti di Shabbat: accendere, costruire e creare qualcosa di nuovo.
Alla fine della giornata, il team di Ye’ud fa il punto della situazione con lo psicologo Dan Wiesenfeld che apre il dibattito su cosa si sia appreso in tema di leadership dai diversi incontri e dai relatori.
Sottolinea poi rav Della Rocca: “Viviamo in un’epoca di grande incertezza nella quale l’ebraismo è assai complesso e articolato. Nel nostro viaggio siamo usciti da seminato: metaforicamente invece di fare un percorso diretto a Roma a Milano ci siamo fermati se qualche paesino ci colpiva e abbiamo dimostrato come sia importante il percorso in sé. Non dobbiamo essere ostaggi dell’obbiettivo ma è necessario mantenere la consapevolezza e porsi domande. Bisogna smetterla di parlare con slogan e ritrovare la propria autenticità. Quello che abbiamo fatto con questo corso è un investimento per le comunità ebraiche italiane del futuro”.
Ma cosa è una comunità e come è cambiata? A rispondere nella sessione è Avy Leghziel, italiano e direttore del dipartimento Educativo del Bene Akivà mondiale. Dopo aver proiettato una scena del film “Il violinista sul tetto”, scrive con l’aiuto dei partecipanti le definizioni del tipo di comunità che scorre sullo schermo: tradizionale, con ruoli fissi, figure particolari, che passa di generazione in generazione e che ha un rapporto neutrale con i non ebrei.
“Cosa è cambiato oggi? La comunità ebraica è passata da essere tradizionale a istituzionale con un pesante bagaglio burocratico che allontana le nuove generazioni. I tre grandi problemi sono il calo di commitment, di vocazione, da parte dei giovani e il dibattito tra comunità inclusiva ed esclusiva e tra tradizione e innovazione” spiega.
Cosa fare? Leghziel propone il design thinking, un metodo che partendo dal marketing cambia radicalmente qualsiasi struttura: “Se volessimo de-istituzionalizzare la comunità potremmo usare un metodo che ridefinisca, capisca quali siano le necessità, crei un prototipo e poi lo testi. Educando a valori, la comunità ebraica attuale potrebbe sfuggire ai cavilli e al mero ruolo di istituzione”.
Tempo di bilanci anche per i giovani partecipanti di Ye’ud che raccontano a Pagine Ebraiche le loro impressioni. A iniziare è Sara Salmonì, 23enne romana: “Trovo che sia stata un’ottima idea organizzare il seminario in Israele perché ha rafforzato la nostra identità ebraica, un elemento fondamentale per chi come me si occupa di fare attività nelle comunità ebraiche italiane. Ho imparato che un vero leader non deve per forza essere amato ma rispettato. Non autoritario ma autorevole”. “Non deve dire: ‘Fate!’ ma ‘Facciamo’” le fa eco Claudia Jonas, sua coetanea di Roma. Parla poi Jan Nacmias Indri, triestino di 24 anni che per la prima volta ha visitato Israele: “Non pensavo che venire in Israele potesse accendere una tale luce nei miei occhi. Forse non è solo il paese ad avermi colpito ma anche i suoi abitanti e non per ultime le persone che hanno condiviso con me questa esperienza. Ye’ud ha cambiato la mia visione della comunità e di conseguenza il mio servizio nei confronti di essa”.
Rachel Silvera
(13 marzo 2015)