Qui Gerusalemme – Il seminario Ye’Ud La scelta dell’Aliyah

fotoDopo aver affrontato il tema delle imminenti elezioni in Israele, lo Shabbat dei partecipanti di Ye’ud, il future leader training organizzato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con il supporto della World Zionist Organization, è dedicato interamente ad una delle discussioni che più hanno animato l’ebraismo europeo degli ultimi mesi: la scelta giusta è fare l’Aliyah (trasferirsi in Israele) o è necessario mantenere vivo il ruolo della Galut, la diaspora?
Ad essere protagonista, il presidente dell’Irgun Ole Italia (l’associazione degli ebrei italiani che si trasferiscono in Israele) Vito Anav. Anav lancia un monito spiegando come la comunità ebraiche italiane stiano attraversando un periodo di crisi che vede poca partecipazione in determinate città e un numero crescente di persone che decidono di fare l’Aliyah. “Irgun Ole si occupa di mantenere i canali aperti con le comunità d’origine, di tenere viva la tradizione e inserire i nuovi cittadini. Quello che vogliamo è che gli italiani vengano assorbiti da Israele: se a un nostro evento non viene più nessuno perché impegnato con nuovi amici locali, non potrei che esserne felice”.
Anav continua: “I trecento ebrei italiani trasferitisi lo scorso anno in Israele sono un numero non indifferente, credo che un leader comunitario debba farne conto ed indagare sui motivi”.
Ma la diaspora ha ancora senso, l’ebraismo italiano ha un futuro? Il dibattito si apre e la maggioranza dei partecipanti non vede nella Aliyah l’unica scelta possibile.
Sottolinea il rav Roberto Della Rocca, direttore del Dec UCEI: “Nel Talmud ci sono pagine struggenti nei quali i rabbini proibivano agli ebrei di Babilonia di andare in Israele perché la comunità ebraica di Babilonia era la più forte del mondo. Nel mondo di oggi ci sono ancora haredim che non credono in Israele e aspettano il Messia, sionisti religiosi che seguono la lezione di rav Cook e sionisti laici che si trasferiscono per realizzare la propria identità. Un leader comunitario che vive nella diaspora deve puntare ad un ebraismo vivo, chiedersi: ‘Cosa abbiamo da dire?’Vivere fuori da Israele non significa solo combattere l’antisemitismo ma essere proattivi. Se una nave affonda il leader deve affondare con lei, ma soprattutto dobbiamo chiederci dove portarla questa nave”.
“Se siamo qui per il seminario di Ye’ud è perché vogliamo dare qualcosa e aiutare la nostre comunità di provenienza”, spiega Naomi Stern di Milano.
Ad intervenire anche Alex Zarfati socio dell’azienda Isayblog e gestore delle pagine social di diversi gruppi e istituzioni comunitarie, fra cui il sito Progetto Dreyfus: “Spesso chi parte in Israele è carico di aspettative e crede di realizzare facilmente tutti i sogni. La verità è che prima di partire bisogna sapere precisamente cosa si vuol fare e quali siano gli obiettivi”.
Continuano infine i commenti dei partecipanti di Ye’ud. Federico Baldi Lanfranchi di Firenze racconta: “Il programma mi è sembrato molto interessante e la permanenza è stata ricca a livello sociale e culturale. Non ho avuto esperienze nei movimenti giovanili ma sono sempre stato interessato alla dinamica delle comunità ebraiche che durante le lezioni abbiamo potuto analizzare. Le sessioni con lo psicologo Dan Wiesenfeld mi hanno insegnato che sbagliare è un gran modo per interiorizzare”. Dello stesso parere David Dattilo di Roma: “Ho trovato tutto molto interessante, in particolare il lavoro con Dan Wiesenfeld e la lezione di Avy Leghziel sul futuro delle comunità. Una location come Israele è stata poi la scelta perfetta”.

Rachel Silvera twitter @rsilveramoked

Lo scorso Shabbat ho avuto il piacere di incontrare i ragazzi italiani del gruppo Ye’ud. L’incontro è stato realizzato con l’aiuto di Vito Anav, presidente dell’Irgun Olè Italia e figura di riferimento molto attiva e importante nella comunità degli italiani in Israele.
Di grande interesse, presso il Tempio italiano di Gerusalemme, la derashà del rav Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento Educazione e Cultura UCEI. Al centro del confronto il tema del rapporto tra la comunità ebraica d’Italia e quella italiana in Israele, la più grande comunità nazionale dopo quella romana.
Vito ha chiesto ai ragazzi di non dimenticare mai Israele. “Israele è una realta che esiste, i modi di frequentarla oggi sono tanti (Masa, Nahale, Irgun Olì Italia). Sappiate che potrete sempre contare sugli italiani in Israele”, ha sottolineato Anav.
Oltre i numeri questo incontro mi ha fatto riflettere sul legame indissolubile tra le due realtà.
Lo scorso sabato ad esempio abbiamo festeggiato al Tempio italiano l’arruolamento di un ragazzo in partenza per il servizio militare, Imanuel Lazar (anche il figlio del rav Della Rocca, Eitan, ha iniziato la leva in questi giorni). Nell’occasione è stato stampato un nuovo siddur del minhag bene romì ed è stato chiamato “sidurello”. Behatzlachà a tutti!
Nello stesso Shabbat abbiamo completato la lettura di Shemot e da questa abbiamo imparato che il primo individuo a definire Israele come nazione e popolo (Am) è un nemico, un antisemita: Parò, il faraone d’Egitto. Viene quindi da chiedersi? Di chi è il compito di mantenere il nostro popolo unito?
La risposta secondo me è chiara, il compito è nostro. Perché solo così possiamo concretizzare i timori del faraone e mantenere la nostra identità senza bisogno di motivazioni esterne.
Mantenerci uniti per restare compatti, in piedi davanti ai nuovi rigurgigiti di odio a Gerusalemme, Copenaghen, Parigi, aiutarci l’un l’altro, mantenere la nostra identità. È la sfida comune delle comunità d’Italia e della comunità italiana in Israele.
La presenza di ebrei nella Diaspora e la presenza di ebrei in Israele sono entrambe essenziali. Ognuna ha il suo compito, ognuna il suo ruolo.
Non dobbiamo mai dimenticarlo e dobbiamo lavorare per rafforzare il dialogo, gli incontri (anche virtuali), il legame anche attraverso organismi, associazioni, progetti, attività e programmi. Già esistenti o ancora da ideare.

Michael Sierra

(15 marzo 2015)