Israele – Cinque grandi questioni sul tavolo
Le elezioni del 17 marzo in Israele richiamano due tipi di analisi: una più tecnica per cercare di capire meglio come si è distribuito il voto rispetto alle elezioni precedenti, e l’altra più a fondo sulle conseguenze delle scelte politiche del popolo israeliano. La prima cosa che va detta, però, è che il Comitato elettorale nazionale è presieduto dal giudice della Corte Suprema Salim Joubràn, un giurista arabo. Il Comitato è formato dai rappresentanti dei diversi partiti, governa le operazioni di voto, ne controlla la correttezza e la trasparenza, decide sull’ammissibilità delle liste alla competizione, e commina multe e sanzioni nel caso di infrazioni alle regole prescritte durante la campagna elettorale. Si tratta dunque di un organismo molto potente le cui decisioni possono essere sovvertite solo dalla Corte Suprema. Il fatto che un membro della minoranza araba israeliana sia chiamato a svolgere un ruolo di tale critica importanza per il sistema democratico dovrebbe chiudere la bocca a chi parla di discriminazione o addirittura di apartheid in Israele.
Il voto per la 20esima Knesset ha coinvolto il 72,4% degli elettori, la più alta percentuale dal 1999. Si era molto parlato di assenteismo, di scarsa motivazione, di rassegnato qualunquismo da parte del pubblico. Ma alla fine l’afflusso, e nelle ultime ore il vero e proprio assalto alle urne ha dimostrato che la democrazia in Israele è ben viva. Gli elettori hanno scelto di esprimersi, sia pure nei limiti della non proprio ideale offerta politica e di un metodo elettorale che incoraggia la frammentazione dei partiti e non garantisce la rappresentanza geografica degli elettori. Proprio nelle ultime ore, quando i sondaggisti avevano già chiuso i loro punti di raccolta dei dati, Benjamin Netanyahu ha vinto la campagna con un richiamo massiccio agli istinti primordiali della popolazione attraverso telefonate, sms, Twitter e Facebook. Il presunto spauracchio del voto massiccio da parte dei cittadini arabi, e la provocatoria equazione Arabi=antisionisti= Herzog+Livni ha colpito nervi sensibili calpestando il fatto che la lista di Herzog e Livni si chiama Unione Sionista. La rimonta dell’ultima ora ha reso penosamente inadeguati i sondaggi di uscita dai seggi elettorali che davano un pareggio o un lieve vantaggio al Likud. La perentoria vittoria finale di Netanyahu (30-24) innegabilmente cattura l’umore del paese, ma anche le sue profonde contraddizioni. Una campagna elettorale giocata in gran parte sui temi dell’economia, del disagio sociale e della critica anti-Bibi si è conclusa con un drammatico ritorno ai temi dell’identità nazionale e della sicurezza tanto cari a Bibi. In realtà, se dividiamo i partiti in campo nelle cinque principali aree politiche, i cambiamenti sono stati minimi.
Il fatto più vistoso è la lista unificata araba che con 13 seggi ne aggiunge due alla somma delle sue componenti nella Knesset precedente. Lista che è in realtà un vero parlamentino dei diversi e che in caso di vittoria laburista si sarebbe prontamente scissa nella componente massimalista e in quella possibilista. Ma con Netanyahu al potere, il blocco rimarrà unito costituendo il terzo maggiore partito. Ci vuole molta cocciutaggine per non voler ammettere che in termini reali anche se idealmente non dichiarati Israele è oggi formalmente uno stato bi-nazionale. La continua insistenza degli ambienti nazionalisti e messianici nel voler annettere più territori e più popolazioni palestinesi può solo ottenere il risultato di rendere ancora più bi-nazionale e meno ebraico quello che vorrebbe essere lo Stato degli ebrei.
Nell’area di centrosinistra, i laburisti di Herzog e i centristi di Livni uniti guadagnano tre seggi, da 21 a 24, rispetto alla loro somma precedente, ma Meretz perde un seggio, da 6 a 5 e anche voti in assoluto, in parte di cittadini arabi a favore del partito unificato. In totale dunque, il centrosinistra guadagna 2 seggi, tendenza che prosegue quella delle elezioni precedenti ma insufficiente a cambiare i grandi equilibri. Al centro il numero totale degli eletti resta immutato (21) ma cambia in modo significativo la loro distribuzione: nel 2013, 19 a Yesh Atid di Yair Lapid e 2 ai poveri resti di Kadima, ora 11 a Lapid e 10 al nuovo partito Kulanu di Moshe Kahlon. Quest’ultimo diventa la chiave di volta per la formazione del nuovo governo e potrà chiedere a Netanyahu un prezzo quasi illimitato per concedergli il suo appoggio. A destra, la grande vittoria del Likud (da 19 a 30 seggi) avviene in gran parte a spese degli alleati naturali Bayt Yehudi di Naftali Bennett, che cala da 12 a 8, e Israel Beitenu di Avigdor Liberman, che crolla da 12 a 6. Il totale netto per la destra è dunque un incremento di un solo seggio. Infine il vero dramma: la scissione di Shas ha causato grave danno ai partiti Haredim. Degli 11 seggi che aveva, Aryeh Deri ne conserva 7, mentre gli altri 4 che sarebbero passati a Eli Yishai finiscono nel nulla perché il suo nuovo partito Yahad fallisce di oltre 10mila voti la soglia minima del 3,25%. Ma Yishai ha sottratto voti anche a Yahadut Hatorah che così scende da 7 a 6 seggi, con una perdita complessiva di 5 per i partiti religiosi. Quello che i partiti arabi hanno capito (l’unione fa la forza), misteriosamente è sfuggito ai haredim, di solito molto accorti nella loro gestione politica. Ricapitolando: centrosinistra più arabi, +4; destra più religiosi, -4. Il popolo si sposta a sinistra, Bibi stravince le elezioni.
Si tratta ora di creare un governo e, fatto non meno cruciale, di elaborare una politica per Israele. La formazione di una coalizione sarà molto difficile e laboriosa perché tutti e sei i partiti vincenti arrivano alla trattativa con grande appetito. Kahlon vuole il tesoro, Liberman la difesa, Bennett gli Esteri, Deri gli interni, Yahadut Hatorah la potente commissione finanze. Ma qualcosa bisognerà pur lasciare anche agli assetati giovani turchi del Likud. Il problema è che Natanyahu ha spedito il paese alle elezioni anticipate perché non aveva saputo far passare il bilancio dello Stato, ma con tante richieste tanto disparate dopo le elezioni siamo lontanissimi da una soluzione concordata. Sul tavolo almeno cinque grandi questioni:
1. I palestinesi e l’Iran. Bibi ha detto no a ogni trattativa. Il problema in Medio Oriente è che Israele può fare tutti gli errori politici possibili, ma quando si guarda bene in faccia la controparte si deve ammettere che il margine di manovra è quasi inesistente. Se almeno Hamas, che fa parte della coalizione di governo a Ramallah, abolisse l’articolo 7 della sua carta (“Vieni Muhammed, e uccidi tutti gli ebrei”).
2. Obama. Nei confronti dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti, invece, la militanza pro-repubblicana di Bibi ha causato danni colossali e forse irreversibili di fronte all’amministrazione democratica. Se gli Stati Uniti rinunciassero al potere di veto all’Onu, l’isolamento internazionale di Israele avrebbe costi incalcolabili, tanto più in un mondo in cui si diffonde il boicottaggio economico e culturale antiisraeliano.
3. Stato ebraico e democratico. Nel futuro governo Netanyahu aumenta il peso di chi vuole smantellare l’equilibrio fra i poteri costituzionali, imponendo la politica alla Corte Suprema che finora è stato il cane da guardia dell’equità. Si parla di controlli sui finanziamenti dei partiti di sinistra, ma non su quelli della destra che riceve fondi illimitati dal principe della roulette Sheldon Adelson. Aumenta la retorica nazionale mentre di fatto viene messa in causa la natura democratica dello Stato d’Israele.
4. Unità e tensioni interne. Nella campagna elettorale Netanyahu ha usato senza inibizione la strategia della tensione con almeno due filmini di carattere nazifascista (subito smentiti e rottamati). Bibi ha proclamato che una “voragine incolmabile” lo separa dai sionisti progressisti, ma non si è accorto che nelle basi dell’aviazione israeliana il partito più votato è stato l’Unione Sionista. Gli resta peraltro la fanteria.
5. Disuguaglianze sociali. Per chi vive in Israele la questione cruciale resta quella del costo della vita e delle pari opportunità. Non sarà facile mantenere i privilegi e le agevolazioni degli uni, e allo stesso tempo consentire agli altri di avere una casa propria e di arrivare a fine mese. Qui occorre un vero mago e Bibi lo è stato nel vincere le elezioni. Su quello che verrà dopo esistono legittimi e fondati dubbi.
Sergio Della Pergola, Pagine Ebraiche Aprile 2015
(25 marzo 2015)