La bella favola
Un amico, nonché collega, sconsolato, recentemente mi rendeva nuovamente edotto di quello che già sapevo per esperienza diretta. Entrando in una libreria (punto vendita?) di una nota catena di distribuzione (spaccio?) di libri (di fatto una cartolibreria afflitta da gigantismo e bulimia degli oggetti presenti in essa), allo scaffale dedicato alla storia trovava, in rapida successione una serie di volumi tutti invariabilmente firmati da autori provenienti dal mondo della televisione e ivi stabilmente, nonché lucrosamente, assisi. Di altri, poco se non nulla o comunque, nella migliore delle ipotesi, in raminghe, pudiche copie, invariabilmente destinate ad essere restituite, a stretto giro, al distributore. Per finire, eventualmente, tra le file dei remainders, qualora ancora un po’ di vita dovesse essere loro ancora accordata. Il tasso di rotazione dei volumi nelle librerie delle grandi catene è vorticoso. Non è infrequente che richiedendo oggi un testo uscito pochi mesi fa, anche da grandi editori, quindi con una buona o discreta distribuzione, ci si senta rispondere che è irreperibile, oppure già “fuori catalogo” (sic!) e così via. Le librerie indipendenti, che in questi difficilissimi anni hanno cercato di resistere ai movimenti tellurici del mercato, svolgendo peraltro molto spesso una vera e propria funzione pubblica, soprattutto nelle città di minori dimensioni, sono state messe con le spalle contro il muro, pagando il prezzo del combinato disposto tra decremento delle vendite, eccesso di offerta di titoli, politiche del reso chiaramente volte contro la piccola impresa commerciale e così via. Non che l’amico, di cui dicevo, ambisse ad una parata di lustrini accademici o ad una esibizione di lignaggi di ricerca alti, se non eburnei. Lasciamo poi stare le lamentazioni, un tanto al chilo, sui «mala tempora currunt, sed peiora parantur» (pessimi tempi quelli che stiamo vivendo, ma se ne preparano di peggiori!), che sanno tanto di elitario, come se in epoche trascorse si vivesse invece in chissà quale Eldorado della conoscenza. Ma notare l’affastellamento e l’inflazione di nomi stranoti, poiché conosciuti attraverso il media della comunicazione di massa per eccellenza, per l’appunto la televisione, nel mentre tutto il resto pare non solo latitare ma essere del tutto inesistente, o evanescente, ha ingenerato in lui un senso di sostanziale inutilità di se stesso, essendo anch’egli uno storico. Sgombriamo il campo: non c’è un problema di invidia. Qualora si intendesse fare concorrenza ai soliti noti ci si dovrebbe infatti porre, con perizia e determinazione, sulla loro medesima lunghezza d’onda (trasmissione?), accogliendo la sfida di quei linguaggi, di quei formati, di quell’habitat. Il punto non è questo. In una società pluralista, qual è il nostro Paese, coesistono diversi modi di raccontare il passato. È un fatto positivo. A patto che una parte di questi modi non si traduca nella sua riscrittura integrale, ossia in un’azione che da divulgativa si fa qualcosa d’altro. Dove finisca un certo modo, legittimo, di operare, e dove inizi un diverso e manipolatorio criterio di intendere la narrazione dei trascorsi, ancorché spacciato per esercizio storico, è cosa assai difficile da dire e, comunque, va indagato di circostanza in circostanza, di caso in caso. In genere, tuttavia, nella pubblicistica che rimanda alla storia senza nessuna cautela storiografica e, quindi, metodologica, ci sono alcune ricorrenze e stili condivisi. Il primo di essi è il ricorso al rifiuto delle regole implicite (poiché implicate e richiamate inevitabilmente da un approccio rigoroso alla materia presa in oggetto) della ricerca storica, presentate invece al pubblico non solo come degli intralci bensì del pari a veri e propri filtri che, per il fatto stesso di esistere, costituirebbero un’abile trappola con la quale il ceto (casta?) degli storici professionali e professionisti impedirebbero alla collettività (gente?) di accedere ad un legittimo sapere. In genere, in tali casi, ricorre d’abitudine l’espressione: “smettiamola di fare filosofia!”. Come se la filosofia fosse in se stesso un esercizio deteriore, negletto e magari anche sconsiderato. Si sa, chi non si balocca con i pensieri e ritiene invece di sapere anticipatamente quale sia la morale della favola, va subito al dunque, senza i taroccamenti degli “intellettuali”, che prima annacquano il brodino per poi intorbidare le acque. In questo modo, tuttavia, il senso della complessità dei percorsi storici viene ridotto ad una inutile, orpellosa incomprensibilità, alla quale si emenderebbe dichiarando che in fondo le cose sono “facili” da capire. Basta che l’autore si renda megafono della “gente” – questa volta la parola la si pronuncia senza tante inibizioni – facendo coincidere evento con news, persona con personaggio, storia con suggestione e indiscrezione, percorso con trama, ricerca con denuncia, valutazione di fondo con sentenza inappellabile. Il tutto immerso nella magica miscela dello scandalo, dello scalpore, del complotto, finalmente smascherato e svelato dall’intrepido inquirente. Il modello del magistrato-giudice che mette in chiaro, e allo stesso tempo alla berlina, le inconfessabili mene dei “potenti”, è oramai un classico che, per una sorta di proprietà transitiva, è stato acquisito anche in altri campi, a partire dal giornalismo. Il quale ha costruito una parte delle sue residue fortune, essendo altrimenti mestieri affaticato e a tratti sfiancato dalla sfida delle trasformazioni tecnologiche e dalla pluralità di linguaggi e di loro fruitori, sul criterio della “denuncia” come paradigma univoco della comunicazione collettiva. Non è un caso che chi si presta a questo genere di approccio, che ancora una volta simula una critica al potere costituito quando invece ne rafforza i suoi sottili e infiniti legami, sia egli stesso, quasi sempre, un esponente, a vario titolo, di quell’establishment dell’informazione che dice di volere invece mettere a nudo. Laddove, tra l’altro, la storia si ibrida da subito con la cronaca, il passato con il presente, rendendo tutto indistinguibile e indistintamente fruibile, come una sorta di frappè da sorseggiare e mandare giù senza troppi indugi. Una seconda ricorrenza è quella che fa dell’emotività la cifra dominante. Si tratta di una strategia di comunicazione che gioca pesantemente sull’identificazione (positiva o negativa: della serie ti amo o ti odio; le due cose sono facilmente intercambiabili, poiché non conta cosa si pensa ma il risentimento che si nutre) tra lettore e oggetto di lettura. L’emozione, in questo caso, serve sia a ingenerare un facile consenso alle proprie tesi sia per impedire a priori qualsiasi distanziamento critico, che è invece indispensabile se si vuole circoscrivere, definire e indagare ciò di cui si intendere raccontare poi la storia. Poiché qualsivoglia approccio emozionale, e quindi anche il sentimentalismo profuso a piene mani in tante pagine, come in moltissime trasmissioni televisive (ancora una volta entra in gioco la specularità tra le une e le altre), è esattamente l’opposto di una riflessione problematizzante. E qui si apre uno spazio gigantesco, una sorta di immensa prateria, sul buon uso delle memorie, personali e collettive. Non è un esempio in tale senso cercare il consenso degli astanti attraverso il ricorso al sensazionalismo dell’esperienza individuale, laddove essa travalica la possibilità di ricondurla ad una dimensione di contesto, nella quale questa costituisce non un esercizio di egocentrismo bensì di avvicinamento al tracciato dei destini collettivi. Nulla vieta di affidarsi al racconto del testimone, diretto o traslato che sia, ma il resoconto va sempre fatto interagire con la rete delle competenze di chi di certe cose, quelle cose che sono il fuoco del dire comune, proprio perché non le ha vissute in prima persona, avendole semmai rese oggetto ripetuto di analisi e studio, può offrire la giusta distanza che ogni esercizio di comprensione, anche empatica, richiede. Altrimenti se ne viene travolti, rimanendone doppiamente implicati, vuoi per eccesso di immedesimazione come per effetto di saturazione. Mentre nel primo caso si rischia allora di trasformare un evento in un paradigma ideologico, attraverso il quale filtrare tutto, a partire dal proprio presente, nel secondo si è tentati di rigettarlo, anche e soprattutto nella sua dura oggettività, nella sua incontrovertibile fattualità, ritenendolo, infine, fastidioso se non ripugnante rispetto al proprio equilibrio quotidiano. L’uno e l’altro caso sono e rimangono comunque due modalità di falsa comprensione del passato, quand’anche si presentino, a molti, come qualcosa di esattamente opposto, ovvero come l’unico modo per farlo proprio. Negazione, rimozione, riduzionismo ma anche sacralizzazione e tabuizzazione, insieme all’imperversante banalizzazione, peraltro non stanno mai agli antipodi semmai alimentandosi vicendevolmente, in maniera perversa, tra di loro. Cosa c’entra tutto questo con gli scaffali delle librerie? Più o meno quanto ha a che fare con gli schermi dei monitor che ogni giorno catturano la nostra attenzione. Poiché il libro, in siffatta condizione, diventa una sorta di prodotto in sedicesimo di un format televisivo di grana grossa, un suo prolungamento artificiale, molto “usa e getta”. Come ciò che finge di raccontare, nel momento che stesso in cui lo mitologizza o lo demonizza.
Claudio Vercelli
(12 aprile 2015)