Sette medaglie per la Libertà
Su 603 medaglie d’oro al valore concesse dall’Italia repubblicana a uomini che si erano distinti per la loro militanza di resistenti, sette furono concesse a cittadini ebrei. Una percentuale veramente notevole. Ecco i loro nomi: Eugenio Calò (nato a Pisa, moglie e figli catturati, combattente in Val di Chiana, catturato e morto sotto torture); Eugenio Colorni (nato a Milano, uno degli ideatori del Movimento Federalista Europeo, morto in un attentato fascista a Roma); Eugenio Curiel (nato a Trieste, direttore dell’Unità clandestina, uno dei fondatori del Fronte della Gioventù, morì in un attentato fascista a Milano), Sergio Forti (nato a Trieste, combattente nei pressi di Norcia, colto dai tedeschi, salvò due compagni e si sacrificò al fuoco nemico), Mario Jacchia (nato a Bologna, avvocato antifascista, comandante delle forze partigiane in Emilia, catturato, fu torturato e finito dai tedeschi), Rita Rosani (nata a Trieste, insegnante alla scuola ebraica, si unì ai partigiani nella zona di Verona, morì combattendo), Ildebrando Vivanti (nato a Brescia, si unì ai partigiani della Valle di Gesso, ferito in combattimento, fu condannato a morte).
Dopo l’8 settembre del 1943, gli ebrei non avevano per sopravvivere che pochissime strade da percorrere: il passaggio nella clandestinità, lo sconfinamento in Svizzera, oltrepassare le linee del fuoco a Sud, oppure, per uomini e donne validi privi di responsabilità famigliari, aggregarsi ai partigiani. In queste condizioni, l’alta partecipazione di giovani ebrei al movimento di Resistenza è più che comprensibile. Da una prima indagine del CDEC, il Centro di documentazione ebraica contemporanea, appare come l’apporto degli ebrei fu rilevante sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, raggiungendo parecchie centinaia di persone accertate (almeno 520 su 32-33.000 ebrei di allora, cosa non da poco!), con numerosi nomi di sicura preminenza.
Più che di resistenza ebraica, si tratta, più propriamente, di contributo di ebrei al movimento di resistenza antinazista e antifascista: qui da noi la lotta non assunse mai connotazione ebraica collettiva come per esempio in Francia, Belgio, Iugoslavia, Polonia, Russia (dove ci furono intere brigate costituite da ebrei), ma rimase sempre nel quadro di orizzonti individuali. Inoltre non si può parlare di resistenza ebraica perché aderirono ai movimenti della Resistenza soprattutto giovani ebrei con forte identità italiana e poca identità ebraica. Durante la lotta, gli specifici problemi ebraici vennero costantemente accantonati in favore dei generali problemi dell’Italia dinanzi al regime fascista e all’occupazione tedesca. Vi fu un solo capo partigiano ebreo che tentò di liberare un campo di concentramento zeppo di ebrei: Haim Vito Volterra irruppe con i suoi uomini nel campo di concentramento di Servigliano Marche il 3 maggio 1944 (Volterra è morto soltanto un paio di anni fa in una casa di riposo a Gerusalemme, dove l’andavo regolarmente a visitare).
A parte quell’episodio, non si registra nessun tentativo partigiano che tentasse di fermare un treno di deportazione o di organizzare dall’Italia la fuga in Svizzera di gruppi di ebrei. Questo atteggiamento di ebrei italiani all’interno del movimento di resistenza non si spiega altro che con una totale assimilazione culturale e sociale da una parte e con un forte disagio della propria identità dall’altra.
Fanno eccezione pochi casi, tra i quali quello di Emanuele Artom, ebreo torinese dalla forte educazione ebraica, che ha lasciato un diario coevo pieno di tensione morale sulla sua attività partigiana, cui Guri Schwarz ha dedicato recentemente un bello studio. Anche il comandante Aldo Laghi, alias il filatelico Giulio Bolaffi, capo partigiano della divisione Stellina operante in Val di Lanzo e protagonista vittorioso di una famosa battaglia partigiana, ci ha lasciato un prezioso diario in cui, in diversi punti emerge il suo ebraismo (Artom e Bolaffi sono i pochi casi di autori di diari coevi sulla vita partigiana). Ricordo anche il piccolo ebreo bolognese Franco Cesana, tredicenne, il più giovane caduto partigiano d’Italia che, nella sua ultima lettera alla madre, accenna, seppur in maniera velata, alla sua appartenenza ebraica “…non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima; solo precario è il dormire. Per chiarire un increscioso incidente ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare. …Affettuosamente ti bacia e ti pensa il tuo tesoro. Appena ricevuta la mia bruciala… ancora ti saluto e ti abbraccio”.
Liliana Picciotto, storica, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(22 aprile 2015)