peccati…

I Maestri insegnano che le sofferenze cancellano i peccati. Sembra quindi strano che il malato di “tzarà‘ath” (che, come è noto, colpiva chi si macchiava della colpa di maldicenza) dovesse portare un sacrificio di espiazione. Tuttavia, è da considerare il fatto che l’idea che le sofferenze cancellino i peccati s’impara dal significato della liberazione dello schiavo mutilato dal padrone. Si tratta in questo caso di una sofferenza derivante da un male non guaribile, permanente. Diverso è il caso della “tzarà‘ath”, il cui sacrificio viene portato “be-yòm tahorathò”, il giorno della guarigione: se c’è guarigione, le sofferenze non erano tali da cancellare completamente la colpa.
È anche da considerare la gravità della maldicenza. Questo peccato è annoverato insieme a quelli più gravi: il versamento di sangue, l’immoralità sessuale e l’idolatria. Non solo: chi fa maldicenza contamina le sue labbra, e perfino la Tefillà o le parole di Torà che pronuncia vengono contaminate dall’impurità. Perciò il Salmista afferma “Preserva la tua lingua dal male e le tue labbra dal pronunciare inganno, allontanati dal male ed opera il bene”: è inutile tentare di fare il bene se prima non si elimina completamente il male interno causato dalla maldicenza. Solo se il malato di “tzarà‘ath” fa Teshuvà e si purifica a dovere, allora si restaura la condizione di prima del peccato ed il bene che fa va a buon fine. In altri termini, è solo “be-yòm tahorathò”, quando si purifica, che ciò che fa chi era malato o passibile di “tzarà‘ath” diventa vera Torà.

Elia Richetti, rabbino

(23 aprile 2015)