religione…

Ama il lavoro, odia la rabbanut (grandezza) e non desiderare l’amicizia delle autorità (Pirkei Avoth I, 10). Siate cauti con le autorità politiche, perché non vi si avvicinano se non quando hanno bisogno di voi, vi mostrano amicizia quando fa loro comodo, ma non vi assistono nel momento del bisogno (Pirkei Avoth II, 3). Maestri, state attenti alle vostre parole, perché potreste essere condannati alla pena dell’esilio, emigrare in un luogo di acque cattive, da cui potrebbero bere i discepoli che vengono dietro di voi e morirne, e così il nome di D-o verrebbe profanato (Pirkei Avoth I, 11).
Nel mondo occidentale contemporaneo la religione conserva fortunatamente ancora un posto importante, nonostante la società secolarizzata nella quale viviamo. Questo rafforzamento della presenza della religione nella vita socioculturale sembrerebbe la confutazione definitiva della visione, accreditata da tempo, secondo cui progresso e secolarismo sarebbero stati destinati ad essere intercambiabili, perlomeno dalla Rivoluzione Francese in poi.
Lo stile di vita religioso ebraico non prevederebbe una distinzione netta tra sacro e profano: poiché la Halachà stessa permea ed investe ogni aspetto della vita sia dell’individuo che della società (sono regolati dalla Halachà lo Shabbat, le Feste, la dieta Kasher, quanto il Diritto Familiare, il Diritto Civile e Commerciale). È anche vero però che esisteva una sorta di separazione ed equilibrio dei poteri nella struttura politica e religiosa dell’antico Regno di Israele: il Sinedrio deteneva il potere legislativo e giudiziario, i sacerdoti (cohanim) quello spirituale legato al culto (nel Tempio di Gerusalemme), il re quello esecutivo.
È indubitabile però che negli ultimi decenni la religione sia prevalentemente tornata ad essere una precisa forza politica, non necessariamente spirituale in senso autentico. Tutt’oggi si assiste a un ritorno diffuso della sfera religiosa in campo politico, fenomeno questo da non ritenersi a priori negativo, ma è necessario analizzarne gli ambiti e le prospettive nelle quali questo si verifica e individuarne la fenomenologia socioculturale. La nuova spinta all’identità religiosa nella sfera politica della società occidentale è realmente caratterizzata da una rinascita spirituale e morale o si tratta piuttosto di un mero strumento politico?
Si assiste, sempre più spesso, ad una “politica del sacro”: la Halachà e i suoi precetti sono mero strumento al servizio della politica fine a se stessa.
Se da un lato è vero che l’identità dello Stato di Israele difficilmente può coniugarsi al di fuori della tradizione ebraica (pur essendo nato sulla base degli ideali del sionismo politico laico e socialista), dall’altro lato si è discusso a lungo, e ancora si discute, sul significato religioso, politico e sociologico, della nascita del fenomeno del “nazionalismo religioso” in Israele, almeno nelle sue frange più radicali di recente sviluppo. Qual è il significato teologico che tale evento riveste per gli ebrei stessi? In che modo esso è stato inteso all’interno delle diverse correnti religiose dell’ebraismo ortodosso? Quale sarà il destino di questo movimento religioso?
È evidente che questo fenomeno di forte spinta religiosa nella sfera politica, perlomeno nel mondo ebraico, non è caratterizzato dall’identificarsi con l’antica tradizione ebraica, ma piuttosto costituisce una novità vera e propria, tipica delle società contemporanee.
Il sionismo è un movimento politico internazionale, nato nel XIX secolo, il cui fine fu l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno “stato degli ebrei” (“Der Judenstaat”).
L’ebraismo ortodosso invece, storicamente da sempre opposto a qualsiasi movimento di risorgimento nazionale, venne parzialmente influenzato dal sionismo politico al più tardi a partire dal 1967, quando la vittoria della Guerra dei sei giorni spinse anche molti rabbini ad abbandonare definitivamente la tradizionale convinzione che il ritorno degli ebrei in Terra di Israele e la costituzione di uno Stato ebraico tradizionale dovesse aver luogo solo dopo la venuta del Messia. Questo fenomeno è conosciuto con il nome di “sionismo religioso”, movimento sviluppatosi già a partire dagli anni trenta del XX secolo, grazie anche alla figura del rav Abraham Isaac Kook (1865–1935), rabbino capo dell’ishuv sionista sotto il mandato britannico. Il sionismo religioso è un’ideologia che combina il sionismo politico e la vita religiosa ebraica. In concomitanza allo sviluppo di questo movimento nazional-religioso vi è stata anche, perlomeno in campo spirituale, una crescita generale della fede e dell’osservanza religiosa all’interno del mondo ebraico secolarizzato. Secondo questa visione, l’ideologia sionista sarebbe stata da sempre parte integrante dell’ebraismo: la trasposizione pratica di una speranza plurimillenaria, collegata all’idea di redenzione messianica, dove la divina provvidenza e l’iniziativa umana combinate insieme hanno dato origine allo Stato ebraico, che è considerato appunto “il principio della fioritura della Redenzione”. Di conseguenza, in quest’ottica, lo Stato di Israele non deve essere considerato solo un “paese per gli ebrei”, ma piuttosto “lo Stato ebraico” in senso tradizionale. L’identificazione religiosa e la sacralizzazione della recente realtà politica ebraica è venuta così a sommarsi alla mera appartenenza spirituale e all’osservanza religiosa come criterio per vivere ebraicamente nella società ebraica contemporanea, sia in Israele che nella diaspora, portando addirittura ad una sorta di “religione del sionismo” nei fenomeni più estremi. Nelle generazioni successive alla morte di Rav Kook, le sue aspettative messianiche si sono infatti realizzate molto più sul piano politico che sul piano spirituale.
In questo senso, oggi, la principale preoccupazione difronte all’ascesa della religione nella sfera politica in ambito ebraico, non consiste nell’emergere democratico di un elettorato sionista-religioso in una società liberale, fenomeno questo perfettamente normale, condivisibile e auspicabile, ma piuttosto nell’affermazione di ideologie radicali, prevalentemente di destra, in seno al sionismo religioso stesso, in particolare il “nazionalismo religioso” nella sua forma più radicale come fenomeno relativamente recente: identificabile a partire dalla figura di rav Tzvi Yehuda Kook (1891–1982), figlio del rav Kook e leader spirituale e ideologico del movimento “Gush Emunim” (1975). La nascita di questo nuovo fenomeno religioso in seno all’ebraismo è reso complesso da vari fattori ideologici e politici, a partire dalla istituzione di svariati partiti nazional-religiosi (senza citare gli estremisti del movimento “Kach”) con diverse denominazioni, che con una funzione prevalentemente politica, hanno ridotto lo la Halachà a mero strumento politico, al fine di gestire direttamente la politica interna ed estera dei governi di Israele, inteso come Stato ebraico in senso tradizionale, nonché le istituzioni delle comunità ebraiche della diaspora. Per quanto riguarda la politica interna si pensi ad esempio alla questione delle conversioni, dove spesso la Halachà viene piegata al servizio di necessità politico-militari. Riguardo alla politica estera si pensi per esempio al problema degli “insediamenti”, giustificati spesso in nome di una discutibilissima interpretazione della Halachà rispetto al rapporto con la Terra di Israele.
Si noti bene che questo fenomeno non deriva affatto, come invece erroneamente taluni credono, dall’influenza delle comunità più specificatamente ortodosse, Charedìm e Chassidim, della società israeliana, le quali prendono nettamente le distanze dalla sfera puramente politica. L’interesse centrale di queste comunità infatti non riguarda la politica, ma la conservazione della comunità stessa e il suo allargamento attraverso il fenomeno sociale della teshuvà. Secondo la visione tradizionale dell’ebraismo ortodosso non sionista, la Terra di Israele fu promessa al popolo ebraico solo in base a determinate condizioni: sostanzialmente gli ebrei avrebbero dovuto sempre mantenere i più alti livelli morali, etici e religiosi. Le parole della tradizione orale sono colme di ammonimenti sul fatto che il mancato rispetto di queste condizioni avrebbe comportato la dispersione del popolo ebraico in un esilio per decreto divino. Le condizioni non sarebbero state soddisfatte al livello richiesto e il popolo ebraico sarebbe stato disperso ai quattro angoli del pianeta, come la storia confermerebbe. E ancora oggi il popolo ebraico vive in questo esilio per decreto divino, come cittadini leali dei paesi in cui si trovano. In quest’ottica è proibito, sotto giuramento, sulla base di quanto è scritto nel Talmud (Ketubot 111a), cercare di porre termine all’esilio con l’opera delle nostre mani, ribellandoci al giogo delle nazioni: cercare di formare uno Stato ebraico in Terra di Israele con la forza e con la politica. Contravvenire a queste proibizioni significa ribellarsi alla volontà dell’Onnipotente, con le tremende conseguenze che un simile tentativo comporta. La Redenzione giungerà solo per mano Divina, quando Egli vorrà, in base ai meriti del popolo ebraico nell’osservanza della Halachà dal punto di vista etico e spirituale. La formazione di uno Stato ebraico in senso tradizionale, prima dell’era messianica, è considerata una trasgressione della Halachà, una profanazione e un ostacolo alla vera Redenzione. Oggi, dal punto di vista del mondo ebraico ortodosso non sionista, lo Stato di Israele viene riconosciuto “de facto”, ma visto come mero paese per gli ebrei e considerato una secolare comunità ebraica, senza alcuna pretesa religiosa. Il popolo ebraico deve considerarsi ancora in esilio (“l’esilio” è tradizionalmente un concetto temporale, non spaziale), sino alla venuta del Messia, anche se si trova in Terra di Israele, la cui santità non è ancora stata ripristinata: non è in vigore quindi, in questo tempo, l’obbligo di risiedere in Terra di Israele e prenderne possesso; non sussiste alcuna proibizione di restituire una parte della Terra di Israele per via della pace con i popoli. Dunque il risorgimento politico ebraico va nettamente distinto dal concetto di Redenzione messianica: “L’età in cui ora ci troviamo non è l’inizio della redenzione, la Aliyà di molti ebrei in Terra Santa non è l’inizio del raduno degli esuli, ma soltanto una possibilità di riscatto per molti ebrei nel tempo dell’esilio…” (Rabbi M.M. Schneerson citato in S.D. Volpe, Daat HaTorah). In quest’ottica Halachà e Politica sono per definizione due ambiti completamente separati e tali devono rimanere. Lo Stato è meramente un’entità tecnica e amministrativa secolare, in un ottica di separazione tra Stato e Religione. La maggior parte degli ebrei ortodossi che non si riconoscono nel “sionismo religioso” e non attribuiscono alcun significato religioso al laico Stato di Israele (senza arrivare agli estremismi della minoranza denominata “Neturei Karta”, che si oppone apertamente al riconoscimento dello Stato di Israele), vivono in Israele e partecipano alla vita politica e sociale del paese come cittadini leali dello Stato in cui vivono, si pensi ad esempio al movimento Agudat Yisrael: la partecipazione alla vita politica è sociale del paese è quindi assolutamente proficua e finalizzata anche a mantenere e sviluppare il sistema educativo religioso. Dalla proclamazione della “Dichiarazione d’indipendenza israeliana” (1948) Agudat Yisrael ha collaborato alla formazione della maggior parte dei governi israeliani.
Rimane però, nella maggior parte degli ebrei ortodossi non sionisti, una riserva in merito al servizio militare a causa di alcuni fattori religiosi: le regole della non violenza, della modestia è del pudore (“tzniuth”); lo studio della Torah come ideale religioso e spirituale, dal quale non ci si può astenere (proibizione di “Bittul Torah”), come migliore forma di difesa per il popolo ebraico; la pace come punto centrale dell’esistenza ebraica, dal momento che tutte le varie tipologie di guerre anticamente previste dalla Torah non sono più attuabili al giorno d’oggi. In questo senso, in base alla Halachà, la “guerra santa” non esiste: la guerra non è mai giusta, ne mai buona. Non c’è alcuna giustificazione religiosa per una guerra contro qualcuno che non minaccia direttamente la propria salvezza personale e non vi è alcuno spazio per la difesa preventiva. È quindi oggetto di forte discussione all’interno del mondo ebraico contemporaneo, tra il mondo ortodosso e il movimento sionista religioso, se sia lecito al popolo ebraico, come collettività, difendersi con la forza e disporre della Terra di Israele attraverso uno Stato e un esercito, prima dell’epoca messianica: in conseguenza del decreto divino dell’esilio, non sarebbe compito del popolo ebraico fare giustizia dei suoi persecutori, questo compito spetterebbe solamente all’Onnipotente. Questa ripugnanza del mondo ortodosso alla violenza non nasce da un’ideologia politica, debolezza, opportunismo o codardia, ma solo da ragioni spirituali e morali fondate sulla Halachà e sull’etica ebraica: la guerra significa uccisione e distruzione, mentre la pace significa vita e costruzione. L’ideale al quale il popolo di Israele aspira è realizzabile solamente nei giorni del Messia.
A mio modesto avviso, pur mantenendo lo status quo in merito ai rapporti tra la sfera religiosa e quella secolare all’interno del sistema giuridico dello Stato di Israele, che di fatto combina il diritto romano dell’Europa continentale, la common law inglese e alcune leggi religiose dell’ebraismo, dobbiamo diffidare dalla religiosità politicizzata. L’autorità religiosa autentica si esprime attraverso l’insegnamento della Torah, con la voce della compassione piuttosto che con quella dell’autorità, attraverso l’umiltà al servizio del popolo, con amore e dedizione, come i grandi chassidim del passato, piuttosto che attraverso l’influenza e i metodi di un partito politico. L’autorità si impone, l’autorevolezza si guadagna. Chi è veramente un chassid? Un uomo che è paziente, che è benigno con amore; che non è invidioso, che non si vanta, che non si gonfia, che non manca di rispetto, che non cerca il suo interesse, che non si adira, che non tiene conto del male ricevuto, che non gode dell’ingiustizia, che si compiace della verità, che copre d’amore tutti i suoi simili, che crede nella bontà delle persone e confida nel prossimo, che tutto sopporta. L’amore di un vero chassid per il popolo di Israele (“ahavat israel”) non ha mai fine.

Paolo Sciunnach, insegnante

(6 luglio 2015)